Gerusalemme liberata, canti III e IV

POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO AL SERENISSIMO SIGNORE IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA

canto TERZO


1       Già l'aura messaggiera erasi desta
      a nunziar che se ne vien l'aurora;
      ella intanto s'adorna, e l'aurea testa
      di rose colte in paradiso infiora,
      quando il campo, ch'a l'arme omai s'appresta,
      in voce mormorava alta e sonora,
      e prevenia le trombe; e queste poi
      dièr piú lieti e canori i segni suoi.

2       Il saggio capitan con dolce morso
      i desideri lor guida e seconda,
      ché piú facil saria svolger il corso
      presso Cariddi a la volubil onda,
      o tardar Borea allor che scote il dorso,
      de l'Apennino, e i legni in mare affonda.
      Gli ordina, gl'incamina, e 'n suon gli regge
      rapido sí, ma rapido con legge.

3       Ali ha ciascuno al core ed ali al piede,
      né del suo ratto andar però s'accorge;
      ma quando il sol gli aridi campi fiede
      con raggi assai ferventi e in alto sorge,
      ecco apparir Gierusalem si vede,
      ecco additar Gierusalem si scorge,
      ecco da mille voci unitamente
      Gierusalemme salutar si sente.

4       Cosí di naviganti audace stuolo,
      che mova a ricercar estranio lido,
      e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
      provi l'onde fallaci e 'l vento infido,
      s'al fin discopre il desiato suolo,
      il saluta da lunge in lieto grido,
      e l'uno a l'altro il mostra, e intanto oblia
      la noia e 'l mal de la passata via.

5       Al gran piacer che quella prima vista
      dolcemente spirò ne l'altrui petto,
      alta contrizion successe, mista
      di timoroso e riverente affetto.
      Osano a pena d'inalzar la vista
      vèr la città, di Cristo albergo eletto,
      dove morí, dove sepolto fue,
      dove poi rivestí le membra sue.

6       Semmessi accenti e tacite parole,
      rotti singulti e flebili sospiri
      de la gente ch'in un s'allegra e duole,
      fan che per l'aria un mormorio s'aggiri
      qual ne le folte selve udir si suole
      s'avien che tra le frondi il vento spiri,
      o quale infra gli scogli o presso a i lidi
      sibila il mar percosso in rauchi stridi.

7       Nudo ciascuno il piè calca il sentiero,
      ché l'essempio de' duci ogn'altro move,
      serico fregio o d'or, piuma o cimiero
      superbo dal suo capo ognun rimove;
      ed insieme del cor l'abito altero
      depone, e calde e pie lagrime piove.
      Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa,
      cosí parlando ognun se stesso accusa:

8       "Dunque ove tu, Signor, di mille rivi
      sanguinosi il terren lasciasti asperso,
      d'amaro pianto almen duo fonti vivi
      in sí acerba memoria oggi io non verso?
      Agghiacciato mio cor, ché non derivi
      per gli occhi e stilli in lagrime converso?
      Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi?
      Pianger ben merti ognor, s'ora non piangi."

9       De la cittade intanto un ch'a la guarda
      sta d'alta torre, e scopre i monti e i campi,
      colà giuso la polve alzarsi guarda,
      sí che par che gran nube in aria stampi:
      par che baleni quella nube ed arda,
      come di fiamme gravida e di lampi;
      poi lo splendor de' lucidi metalli,
      distingue, e scerne gli uomini e i cavalli.

10      Allor gridava: "Oh qual per l'aria stesa
      polvere i' veggio! oh come par che splenda!
      Su, suso, o cittadini, a la difesa
      s'armi ciascun veloce, e i muri ascenda:
      già presente è il nemico." E poi, ripresa
      la voce: "Ognun s'affretti, e l'arme prenda;
      ecco, il nemico è qui: mira la polve
      che sotto orrida nebbia il ciel involve."

11      I semplici fanciulli, e i vecchi inermi,
      e 'l vulgo de le donne sbigottite,
      che non sanno ferir né fare schermi,
      traean supplici e mesti a le meschite.
      Gli altri di membra e d'animo piú fermi
      già frettolosi l'arme avean rapite.
      Accorre altri a le porte, altri a le mura;
      il re va intorno, e 'l tutto vede e cura.

12      Gli ordini diede, e poscia ei si ritrasse
      ove sorge una torre infra due porte,
      sí ch'è presso al bisogno; e son piú basse
      quindi le piaggie e le montagne scorte.
      Volle che quivi seco Erminia andasse,
      Erminia bella, ch'ei raccolse in corte
      poi ch'a lei fu da le cristiane squadre
      presa Antiochia, e morto il re suo padre.

13      Clorinda intanto incontra a i Franchi è gita:
      molti van seco, ed ella a tutti è inante;
      ma in altra parte, ond'è secreta uscita,
      sta preparato a le riscosse Argante.
      La generosa i suoi seguacl incita
      co' detti e con l'intrepido sembiante:
      "Ben con alto principio a noi conviene"
      dicea "fondar de l'Asia oggi la spene."

14      Mentre ragiona a i suoi, non lunge scorse
      un franco stuol addur rustiche prede,
      che, com'è l'uso, a depredar precorse;
      or con greggie ed armenti al campo riede.
      Ella vèr lor, e verso lei se 'n corse
      il duce lor, ch'a sé venir la vede.
      Gardo il duce è nomato, uom di gran possa,
      ma non già tal ch'a lei resister possa.

15      Gardo a quel fero scontro è spinto a terra
      in su gli occhi de' Franchi e de' pagani,
      ch'allor tutti gridàr, di quella guerra
      lieti augúri prendendo, i quai fur vani.
      Spronando adosso a gli altri ella si serra,
      e val la destra sua per cento mani.
      Seguirla i suoi guerrier per quella strada
      che spianàr gli urti, e che s'aprí la spada.

16      Tosto la preda al predator ritoglie;
      cede lo stuol de' Franchi a poco a poco,
      tanto ch'in cima a un colle ei si raccoglie,
      ove aiutate son l'arme dal loco.
      Allor, sí come turbine si scioglie
      e cade da le nubi aereo fuoco,
      il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna,
      sua squadra mosse, ed arrestò l'antenna.

17      Porta sí salda la gran lancia, e in guisa
      vien feroce e leggiadro il giovenetto,
      che veggendolo d'alto il re s'avisa
      che sia guerriero infra gli scelti eletto.
      Onde dice a colei ch'è seco assisa,
      e che già sente palpitarsi il petto:
      "Ben conoscer déi tu per sí lungo uso
      ogni cristian, benché ne l'arme chiuso.

18      Chi è dunque costui, che cosí bene
      s'adatta in giostra, e fero in vista è tanto?"
      A quella, in vece di risposta, viene
      su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
      Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
      ma non cosí che lor non mostri alquanto:
      ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
      tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.

19      Poi gli dice infingevole, e nasconde
      sotto il manto de l'odio altro desio:
      "Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
      fra mille riconoscerlo deggia io,
      ché spesso il vidi i campi e le profonde
      fosse del sangue empir del popol mio.
      Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
      ch'ei faccia, erba non giova od arte maga.

20      Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
      mio fosse un giorno! e no 'l vorrei già morto;
      vivo il vorrei, perch'in me desse al fero
      desio dolce vendetta alcun conforto."
      Cosí parlava, e de' suoi detti il vero
      da chi l'udiva in altro senso è torto;
      e fuor n'uscí con le sue voci estreme
      misto un sospir che 'ndarno ella già preme.

21      Clorinda intanto ad incontrar l'assalto
      va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
      Ferírsi a le visiere, e i tronchi in alto
      volaro e parte nuda ella ne resta;
      ché, rotti i lacci a l'elmo suo, d'un salto
      (mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
      e le chiome dorate al vento sparse,
      giovane donna in mezzo 'l campo apparse.

22      Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
      dolci ne l'ira; or che sarian nel riso?
      Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
      non riconosci tu l'altero viso?
      Quest'è pur quel bel volto onde tutt'ardi;
      tuo core il dica, ov'è il suo essempio inciso.
      Questa è colei che rinfrescar la fronte
      vedesti già nel solitario fonte.

23      Ei ch'al cimiero ed al dipinto scudo
      non badò prima, or lei veggendo impètra;
      ella quanto può meglio il capo ignudo
      si ricopre, e l'assale; ed ei s'arretra.
      Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
      ma però da lei pace non impetra,
      che minacciosa il segue, e: "Volgi" grida;
      e di due morti in un punto lo sfida.

24      Percosso, il cavalier non ripercote,
      né sí dal ferro a riguardarsi attende,
      come a guardar i begli occhi e le gote
      ond'Amor l'arco inevitabil tende.
      Fra sé dicea: "Van le percosse vote
      talor, che la sua destra armata stende;
      ma colpo mai del bello ignudo volto
      non cade in fallo, e sempre il cor m'è colto."

25      Risolve al fin, benché pietà non spere,
      di non morir tacendo occulto amante.
      Vuol ch'ella sappia ch'un prigion suo fère
      già inerme, e supplichevole e tremante;
      onde le dice: "O tu, che mostri avere
      per nemico me sol fra turbe tante,
      usciam di questa mischia, ed in disparte
      i' potrò teco, e tu meco provarte.
 
26      Cosí me' si vedrà s'al tuo s'agguaglia
      il mio valore." Ella accettò l'invito:
      e come esser senz'elmo a lei non caglia,
      gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
      Recata s'era in atto di battaglia
      già la guerriera, e già l'avea ferito,
      quand'egli: "Or ferma," disse "e siano fatti
      anzi la pugna de la pugna i patti."

27      Fermossi, e lui di pauroso audace
      rendé in quel punto il disperato amore.
      "I patti sian," dicea "poi che tu pace
      meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
      Il mio cor, non piú mio, s'a te dispiace
      ch'egli piú viva, volontario more:
      è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
      omai tu debbia, e non debb'io vietarlo.

28      Ecco io chino le braccia, e t'appresento
      senza difesa il petto: or ché no 'l fiedi?
      vuoi ch'agevoli l'opra? i' son contento
      trarmi l'usbergo or or, se nudo il chiedi."
      Distinguea forse in piú duro lamento
      i suoi dolori il misero Tancredi,
      ma calca l'impedisce intempestiva
      de' pagani e de' suoi che soprarriva.

29      Cedean cacciati da lo stuol cristiano
      i Palestini, o sia temenza od arte.
      Un de' persecutori, uomo inumano,
      videle sventolar le chiome sparte,
      e da tergo in passando alzò la mano
      per ferir lei ne la sua ignuda parte;
      ma Tancredi gridò, che se n'accorse,
      e con la spada a quel gran colpo occorse.

30      Pur non gí tutto in vano, e ne' confini
      del bianco collo il bel capo ferille.
      Fu levissima piaga, e i biondi crini
      rosseggiaron cosí d'alquante stille,
      come rosseggia l'or che di rubini
      per man d'illustre artefice sfaville.
      Ma il prence infuriato allor si strinse
      adosso a quel villano, e 'l ferro spinse.

31      Quel si dilegua, e questi acceso d'ira
      il segue, e van come per l'aria strale.
      Ella riman sospesa, ed ambo mira
      lontani molto, né seguir le cale,
      ma co' suoi fuggitivi si ritira:
      talor mostra la fronte e i Franchi assale;
      or si volge or rivolge, or fugge or fuga,
      né si può dir la sua caccia né fuga.

32      Tal gran tauro talor ne l'ampio agone,
      se volge il corno a i cani ond'è seguito,
      s'arretran essi; e s'a fuggir si pone,
      ciascun ritorna a seguitarlo ardito.
      Clorinda nel fuggir da tergo oppone
      alto lo scudo, e 'l capo è custodito.
      Cosí coperti van ne' giochi mori
      da le palle lanciate i fuggitori.

33      Già questi seguitando e quei fuggendo
      s'erano a l'alte mura avicinati,
      quando alzaro i pagani un grido orrendo
      e indietro si fur subito voltati;
      e fecero un gran giro, e poi volgendo
      ritornaro a ferir le spalle e i lati.
      E intanto Argante giú movea dal monte
      la schiera sua per assalirgli a fronte.

34      Il feroce circasso uscí di stuolo,
      ch'esser vols'egli il feritor primiero,
      e quegli in cui ferí fu steso al suolo,
      e sossopra in un fascio il suo destriero;
      e pria che l'asta in tronchi andasse a volo,
      molti cadendo compagnia gli fèro.
      Poi stringe il ferro, e quando giunge a pieno
      sempre uccide od abbatte o piaga almeno.

35      Clorinda, emula sua, tolse di vita
      il forte Ardelio, uom già d'età matura,
      ma di vecchiezza indomita, e munita
      di duo gran figli, e pur non fu secura,
      ch'Alcandro, il maggior figlio, aspra ferita
      rimosso avea da la paterna cura,
      e Poliferno, che restogli appresso,
      a gran pena salvar poté se stesso.

36      Ma Tancredi, dapoi ch'egli non giunge
      quel villan che destriero ha piú corrente,
      si mira a dietro, e vede ben che lunge
      troppo è trascorsa la sua audace gente.
      Vedela intorniata, e 'l corsier punge
      volgendo il freno, e là s'invia repente;
      ned egli solo i suoi guerrier soccorre,
      ma quello stuol ch'a tutt'i rischi accorre:

37      quel di Dudon aventurier drapello,
      fior de gli eroi, nerbo e vigor del campo.
      Rinaldo, il piú magnanimo e il piú bello,
      tutti precorre, ed è men ratto il lampo.
      Ben tosto il portamento e 'l bianco augello
      conosce Erminia nel celeste campo,
      e dice al re, che 'n lui fisa lo sguardo:
      "Eccoti il domator d'ogni gagliardo.

38      Questi ha nel pregio de la spada eguali
      pochi, o nessuno; ed è fanciullo ancora.
      Se fosser tra' nemici altri sei tali,
      già Soria tutta vinta e serva fòra;
      e già dómi sarebbono i piú australi
      regni, e i regni piú prossimi a l'aurora;
      e forse il Nilo occultarebbe in vano
      dal giogo il capo incognito e lontano.

39      Rinaldo ha nome; e la sua destra irata
      teman piú d'ogni machina le mura.
      Or volgi gli occhi ov'io ti mostro, e guata
      colui che d'oro e verde ha l'armatura.
      Quegli è Dudone, ed è da lui guidata
      questa schiera, che schiera è di ventura:
      è guerrier d'alto sangue e molto esperto,
      che d'età vince e non cede di merto.

40      Mira quel grande, ch'è coperto a bruno:
      è Gernando, il fratel del re norvegio;
      non ha la terra uom piú superbo alcuno,
      questo sol de' suoi fatti oscura il pregio.
      E son que' duo che van sí giunti in uno,
      e c'han bianco il vestir, bianco ogni fregio,
      Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi,
      in valor d'arme e in lealtà famosi."

41      Cosí parlava, e già vedean là sotto
      come la strage piú e piú s'ingrosse,
      ché Tancredi e Rinaldo il cerchio han rotto
      benché d'uomini denso e d'armi fosse;
      e poi lo stuol, ch'è da Dudon condotto,
      vi giunse, ed aspramente anco il percosse.
      Argante, Argante stesso, ad un grand'urto
      di Rinaldo abbattuto, a pena è surto.

42      Né sorgea forse, ma in quel punto stesso
      al figliuol di Bertoldo il destrier cade;
      e restandogli sotto il piede oppresso,
      convien ch'indi a ritrarlo alquanto bade.
      Lo stuol pagan fra tanto, in rotta messo,
      si ripara fuggendo a la cittade.
      Soli Argante e Clorinda argine e sponda
      sono al furor che lor da tergo inonda.

43      Ultimi vanno, e l'impeto seguente
      in lor s'arresta alquanto, e si reprime,
      sí che potean men perigliosamente
      quelle genti fuggir che fuggean prime.
      Segue Dudon ne la vittoria ardente
      i fuggitivi, e 'l fer Tigrane opprime
      con l'urto del cavallo, e con la spada
      fa che scemo del capo a terra cada.

44      Né giova ad Algazarre il fino usbergo,
      ned e Corban robusto il forte elmetto,
      ché 'n guisa lor ferí la nuca e 'l tergo
      che ne passò la piaga al viso, al petto.
      E per sua mano ancor del dolce albergo
      l'alma uscí d'Amurate e di Meemetto,
      e del crudo Almansor; né 'l gran circasso
      può securo da lui mover un passo.

45      Freme in se stesso Argante, e pur tal volta
      si ferma e volge, e poi cede pur anco.
      Al fin cosí improviso a lui si volta,
      e di tanto rovescio il coglie al fianco,
      che dentro il ferro vi s'immerge, e tolta
      è dal colpo la vita al duce franco.
      Cade; e gli occhi, ch'a pena aprir si ponno,
      dura quiete preme e ferreo sonno.

46      Gli aprí tre volte, e i dolci rai del cielo
      cercò fruire e sovra un braccio alzarsi,
      e tre volte ricadde, e fosco velo
      gli occhi adombrò, che stanchi al fin serràrsi.
      Si dissolvono i membri, e 'l mortal gelo
      inrigiditi e di sudor gli ha sparsi.
      Sovra il corpo già morto il fero Argante
      punto non bada, e via trascorre inante.

47      Con tutto ciò, se ben d'andar non cessa,
      si volge a i Franchi, e grida: "O cavalieri,
      questa sanguigna spada è quella stessa
      che 'l signor vostro mi donò pur ieri;
      ditegli come in uso oggi l'ho messa,
      ch'udirà la novella ei volentieri.
      E caro esser gli dée che 'l suo bel dono
      sia conosciuto al paragon sí buono.

48      Ditegli che vederne ormai s'aspetti
      ne le viscere sue piú certa prova;
      e quando d'assalirne ei non s'affretti,
      verrò non aspettato ove si trova."
      Irritati i cristiani a i feri detti,
      tutti vèr lui già si moveano a prova;
      ma con gli altri esso è già corso in securo
      sotto la guardia de l'amico muro.

49      I difensori a grandinar le pietre
      da l'alte mura in guisa incominciaro,
      e quasi innumerabili faretre
      tante saette a gli archi ministraro,
      che forza è pur che 'l franco stuol s'arretre;
      e i saracin ne la cittade entraro.
      Ma già Rinaldo, avendo il piè sottratto
      al giacente destrier, s'era qui tratto.

50      Venia per far nel barbaro omicida
      de l'estinto Dudone aspra vendetta,
      e fra' suoi giunto alteramente grida:
      "Or qual indugio è questo? e che s'aspetta?
      poi ch'è morto il signor che ne fu guida,
      ché non corriamo a vendicarlo in fretta?
      Dunque in sí grave occasion di sdegno
      esser può fragil muro a noi ritegno?

51      Non, se di ferro doppio o d'adamante
      questa muraglia impenetrabil fosse,
      colà dentro securo il fero Argante
      s'appiatteria da le vostr'alte posse:
      andiam pure a l'assalto!" Ed egli inante
      a tutti gli altri in questo dir si mosse,
      ché nulla teme la secura testa
      o di sasso o di strai nembo o tempesta.

52      Ei crollando il gran capo, alza la faccia
      piena di sí terribile ardimento,
      che sin dentro a le mura i cori agghiaccia
      a i difensor d'insolito spavento.
      Mentre egli altri rincora, altri minaccia,
      sopravien chi reprime il suo talento;
      ché Goffredo lor manda il buon Sigiero
      de' gravi imperii suoi nunzio severo.

53      Questi sgrida in suo nome il troppo ardire,
      e incontinente il ritornar impone:
      "Tornatene," dicea "ch'a le vostr'ire
      non è il loco opportuno o la stagione;
      Goffredo il vi comanda." A questo dire
      Rinaldo si frenò, ch'altrui fu sprone,
      benché dentro ne frema, e in piú d'un segno
      dimostri fuore il mal celato sdegno.

54      Tornàr le schiere indietro, e da i nemici
      non fu il ritorno lor punto turbato;
      né in parte alcuna de gli estremi uffici
      il corpo di Dudon restò fraudato.
      Su le pietose braccia i fidi amici
      portàrlo, caro peso ed onorato.
      Mira intanto il Buglion d'eccelsa parte
      de la forte cittade il sito e l'arte.

55      Gierusalem sovra duo colli è posta
      d'impari attezza, e vòlti fronte a fronte.
      Va per lo mezzo suo valle interposta,
      che lei distingue, e l'un da l'altro monte.
      Fuor da tre lati ha malagevol costa,
      per l'altro vassi, e non par che si monte;
      ma d'altissime mura è piú difesa
      la parte piana, e 'ncontra Borea è stesa.

56      La città dentro ha lochi in cui si serba
      l'acqua che piove, e laghi e fonti vivi;
      ma fuor la terra intorno è nuda d'erba,
      e di fontane sterile e di rivi.
      Né si vede fiorir lieta e superba
      d'alberi, e fare schermo a i raggi estivi,
      se non se in quanto oltra sei miglia un bosco
      sorge d'ombre nocenti orrido e fosco.

57      Ha da quel lato donde il giorno appare
      del felice Giordan le nobil onde;
      e da la parte occidental, del mare
      Mediterraneo l'arenose sponde.
      Verso Borea è Betèl, ch'alzò l'altare
      al bue de l'oro, e la Samaria, e donde
      Austro portar le suol piovoso nembo,
      Betelèm che 'l gran parto ascose in grembo.

58      Or mentre guarda e l'alte mura e 'l sito
      de la città Goffredo e del paese,
      e pensa ove s'accampi, onde assalito
      sia il muro ostil piú facile a l'offese,
      Erminia il vide, e dimostrollo a dito
      al re pagano, e cosí a dir riprese:
      "Goffredo è quel, che nel purpureo ammanto
      ha di regio e d'augusto in sé cotanto.

59      Veramente è costui nato a l'impero,
      sí del regnar, del comandar sa l'arti,
      e non minor che duce è cavaliero,
      ma del doppio valor tutte ha le parti;
      né fra turba sí grande uom piú guerriero
      o piú saggio di lui potrei mostrarti.
      Sol Raimondo in consiglio, ed in battaglia
      sol Rinaldo e Tancredi a lui s'agguaglia."

60      Risponde il re pagan: "Ben ho di lui
      contezza, e 'l vidi a la gran corte in Francia,
      quand'io d'Egitto messaggier vi fui,
      e 'l vidi in nobil giostra oprar la lancia;
      e se ben gli anni giovenetti sui
      non gli vestian di piume ancor la guancia,
      pur dava a i detti, a l'opre, a le sembianze,
      presagio omai d'altissime speranze;

61      presagio ahi troppo vero!" E qui le ciglia
      turbate inchina, e poi l'inalza e chiede:
      "Dimmi chi sia colui c'ha pur vermiglia
      la sopravesta, e seco a par si vede.
      Oh quanto di sembianti a lui somiglia!
      se ben alquanto di statura cede."
      "È Baldovin," risponde "e ben si scopre
      nel volto a lui fratel, ma piú ne l'opre.

62      Or rimira colui che, quasi in modo
      d'uomo che consigli, sta da l'altro fianco:
      quegli è Raimondo, il qual tanto ti lodo
      d'accorgimento, uom già canuto e bianco.
      Non è chi tesser me' bellico frodo
      di lui sapesse o sia latino o franco;
      ma quell'altro piú in là, ch'orato ha l'elmo,
      del re britanno è il buon figliuol Guglielmo.

63      V'è Guelfo seco, e gli è d'opre leggiadre
      emulo, e d'alto sangue e d'alto stato:
      ben il conosco a le sue spalle quadre,
      ed a quel petto colmo e rilevato.
      Ma 'l gran nemico mio tra queste squadre
      già riveder non posso, e pur vi guato;
      io dico Boemondo il micidiale,
      distruggitor del sangue mio reale."

64      Cosí parlavan questi; e 'l capitano,
      poi ch'intorno ha mirato, a i suoi discende;
      e perché crede che la terra in vano
      s'oppugneria dov'il piú erto ascende,
      contra lo porta Aquilonar, nel piano
      che con lei si congiunge, alza le tende;
      e quinci procedendo infra la torre
      che chiamano Angolar gli altri fa porre.

65      Da quel giro del campo è contenuto
      de la cittade il terzo, o poco meno,
      che d'ogn'intorno non avria potuto,
      (cotanto ella volgea) cingerla a pieno;
      ma le vie tutte ond'aver pote aiuto
      tenta Goffredo d'impedirle almeno,
      ed occupar fa gli opportuni passi
      onde da lei si viene ed a lei vassi.

66      Impon che sian le tende indi munite
      e di fosse profonde e di trinciere,
      che d'una parte a cittadine uscite,
      da l'altra oppone a correrie straniere.
      Ma poi che fur quest'opere fornite,
      vols'egli il corpo di Dudon vedere,
      e colà trasse ove il buon duce estinto
      da mesta turba e lagrimosa è cinto.

67      Di nobil pompa i fidi amici ornaro
      il gran ferètro ove sublime ei giace.
      Quando Goffredo entrò, le turbe alzaro
      la voce assai piú flebile e loquace;
      ma con volto né torbido né chiaro
      frena il suo affetto il pio Buglione, e tace.
      E poi che 'n lui pensando alquanto fisse
      le luci ebbe tenute, al fin sí disse:

68      "Già non si deve a te doglia né pianto,
      che se mori nel mondo, in Ciel rinasci;
      e qui dove ti spogli il mortal manto
      di gloria impresse alte vestigia lasci.
      Vivesti qual guerrier cristiano e santo,
      e come tal sei morto; or godi, e pasci
      in Dio gli occhi bramosi, o felice alma,
      ed hai del bene oprar corona e palma.

69      Vivi beata pur, ché nostra sorte,
      non tua sventura, a lagrimar n'invita,
      poscia ch'al tuo partir sí degna e forte
      parte di noi fa co 'l tuo piè partita.
      Ma se questa, che 'l vulgo appella morte,
      privati ha noi d'una terrena aita,
      celeste aita ora impetrar ne puoi
      che 'l Ciel t'accoglie infra gli eletti suoi.

70      E come a nostro pro veduto abbiamo
      ch'usavi, uom già mortal, l'arme mortali,
      cosí vederti oprare anco speriamo,
      spirto divin, l'arme del Ciel fatali.
      Impara i voti omai, ch'a te porgiamo,
      raccòrre, e dar soccorso a i nostri mali:
      indi vittoria annunzio; a te devoti
      solverem trionfando al tempio i voti."

71      Cosí diss'egli; e già la notte oscura
      avea tutti del giorno i raggi spenti,
      e con l'oblio d'ogni noiosa cura
      ponea tregua a le lagrime, a i lamenti.
      Ma il capitan, ch'espugnar mai le mura
      non crede senza i bellici tormenti,
      pensa ond'abbia le travi, ed in quai forme
      le machine componga; e poco dorme.

72      Sorse a pari co 'l sole, ed egli stesso
      seguir la pompa funeral poi volle.
      A Dudon d'odorifero cipresso
      composto hanno un sepolcro a piè d'un colle,
      non lunge a gli steccati; e sovra ad esso
      un'altissima palma i rami estolle.
      Or qui fu posto, e i sacerdoti intanto
      quiete a l'alma gli pregàr co 'l canto.

73      Quinci e quindi fra i rami erano appese
      insegne e prigioniere arme diverse,
      già da lui tolte in piú felici imprese
      a le genti di Siria ed a le perse.
      De la corazza sua, de l'altro arnese,
      in mezzo il grosso tronco si coperse.
      "Qui" vi tu scritto poi "giace Dudone:
      onorate l'altissimo campione."

74      Ma il pietoso Buglion, poi che da questa
      opra si tolse dolorosa e pia,
      tutti i fabri del campo a la foresta
      con buona scorta di soldati invia.
      Ella è tra valli ascosa, e manifesta
      l'avea fatta a i Francesi uom di Soria.
      Qui per troncar le machine n'andaro,
      a cui non abbia la città riparo.

75      L'un l'altro essorta che le piante atterri,
      e faccia al bosco inusitati oltraggi.
      Caggion recise da i pungenti ferri
      le sacre palme e i frassini selvaggi,
      i funebri cipressi e i pini e i cerri,
      l'elci frondose e gli alti abeti e i faggi,
      gli olmi mariti, a cui talor s'appoggia
      la vite, e con piè torto al ciel se 'n poggia.

76      Altri i tassi, e le quercie altri percote,
      che mille volte rinovàr le chiome,
      e mille volte ad ogni incontro immote
      l'ire de' venti han rintuzzate e dome;
      ed altri impone a le stridenti rote
      d'orni e di cedri l'odorate some.
      Lascian al suon de l'arme, al vario grido,
      e le fère e gli augei la tana e 'l nido.



canto QUARTO


1       Mentre son questi a le bell'opre intenti,
      perché debbiano tosto in uso porse,
      il gran nemico de l'umane genti
      contra i cristiani i lividi occhi torse;
      e scorgendogli omai lieti e contenti,
      ambo le labra per furor si morse,
      e qual tauro ferito il suo dolore
      versò mugghiando e sospirando fuore.

2       Quinci, avendo pur tutto il pensier vòlto
      a recar ne' cristiani ultima doglia,
      che sia, comanda, il popol suo raccolto
      (concilio orrendo!) entro la regia soglia;
      come sia pur leggiera impresa, ahi stolto!,
      il repugnare a la divina voglia:
      stolto, ch'al Ciel s'agguaglia, e in oblio pone
      come di Dio la destra irata tuone.

3       Chiama gli abitator de l'ombre eterne
      il rauco suon de la tartarea tromba.
      Treman le spaziose atre caverne,
      e l'aer cieco a quel romor rimbomba;
      né sí stridendo mai da le superne
      regioni del cielo il folgor piomba,
      né sí scossa giamai trema la terra
      quando i vapori in sen gravida serra.

4       Tosto gli dèi d'Abisso in varie torme
      concorron d'ogn'intorno a l'alte porte.
      Oh come strane, oh come orribil forme!
      quant'è ne gli occhi lor terrore e morte!
      Stampano alcuni il suol di ferine orme,
      e 'n fronte umana han chiome d'angui attorte,
      e lor s'aggira dietro immensa coda
      che quasi sferza si ripiega e snoda.

5       Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
      Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni,
      molte e molte latrar voraci Scille,
      e fischiar Idre e sibilar Pitoni,
      e vomitar Chimere atre faville,
      e Polifemi orrendi e Gerioni;
      e in novi mostri, e non piú intesi o visti,
      diversi aspetti in un confusi e misti.

6       D'essi parte a sinistra e parte a destra
      a seder vanno al crudo re davante.
      Siede Pluton nel mezzo, e con la destra
      sostien lo scettro ruvido e pesante;
      né tanto scoglio in mar, né rupe alpestra,
      né pur Calpe s'inalza o 'l magno Atlante,
      ch'anzi lui non paresse un picciol colle,
      sí la gran fronte e le gran corna estolle.

7       Orrida maestà nel fero aspetto
      terrore accresce, e piú superbo il rende:
      rosseggian gli occhi, e di veneno infetto
      come infausta cometa il guardo splende,
      gl'involve il mento e su l'irsuto petto
      ispida e folta la gran barba scende,
      e in guisa di voragine profonda
      s'apre la bocca d'atro sangue immonda.

8       Qual i fumi sulfurei ed infiammati
      escon di Mongibello e 'l puzzo e 'l tuono,
      tal de la fera bocca i negri fiati,
      tale il fetore e le faville sono.
      Mentre ei parlava, Cerbero i latrati
      ripresse, e l'Idra si fe' muta al suono;
      restò Cocito, e ne tremàr gli abissi,
      e in questi detti il gran rimbombo udissi:

9       "Tartarei numi, di seder piú degni
      là sovra il sole, ond'è l'origin vostra,
      che meco già da i piú felici regni
      spinse il gran caso in questa orribil chiostra,
      gli antichi altrui sospetti e i feri sdegni
      noti son troppo, e l'alta impresa nostra;
      or Colui regge a suo voler le stelle,
      e noi siam giudicate alme rubelle.

10      Ed in vece del dí sereno e puro,
      de l'aureo sol, de gli stellati giri,
      n'ha qui rinchiusi in questo abisso oscuro,
      né vuol ch'al primo onor per noi s'aspiri;
      e poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
      quest'è quel che piú inaspra i miei martíri)
      ne' bei seggi celesti ha l'uom chiamato,
      l'uom vile e di vil fango in terra nato.

11      Né ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
      sol per farne piú danno, il figlio diede.
      Ei venne e ruppe le tartaree porte,
      e porre osò ne' regni nostri il piede,
      e trarne l'alme a noi dovute in sorte,
      e riportarne al Ciel sí ricche prede,
      vincitor trionfando, e in nostro scherno
      l'insegne ivi spiegar del vinto Inferno.

12      Ma che rinovo i miei dolor parlando?
      Chi non ha già l'ingiurie nostre intese?
      Ed in qual parte si trovò, né quando,
      ch'egli cessasse da l'usate imprese?
      Non piú déssi a l'antiche andar pensando,
      pensar dobbiamo a le presenti offese.
      Deh! non vedete omai com'egli tenti
      tutte al suo culto richiamar le genti?

13      Noi trarrem neghittosi i giorni e l'ore,
      né degna cura fia che 'l cor n'accenda?
      e soffrirem che forza ognor maggiore
      il suo popol fedele in Asia prenda?
      e che Giudea soggioghi? e che 'l suo onore,
      che 'l nome suo piú si dilati e stenda?
      che suoni in altre lingue, e in altri carmi
      si scriva, e incida in novi bronzi e marmi?

14      Che sian gl'idoli nostri a terra sparsi? 
      ch'i nostri altari il mondo a lui converta?
      ch'a lui sospesi i voti, a lui sol arsi
      siano gl'incensi, ed auro e mirra offerta?
      ch'ove a noi tempio non solea serrarsi,
      or via non resti a l'arti nostre aperta?
      che di tant'alme il solito tributo
      ne manchi, e in vòto regno alberghi Pluto?

15      Ah! non fia ver, ché non sono anco estinti
      gli spirti in voi di quel valor primiero,
      quando di ferro e d'alte fiamme cinti
      pugnammo già contra il celeste impero.
      Fummo, io no 'l nego, in quel conflitto vinti,
      pur non mancò virtute al gran pensiero.
      Diede che che si fosse a lui vittoria:
      rimase a noi d'invitto ardir la gloria.

16      Ma perché piú v'indugio? Itene, o miei
      fidi consorti, o mia potenza e forze:
      ite veloci, ed opprimete i rei
      prima che 'l lor poter piú si rinforze;
      pria che tutt'arda il regno de gli Ebrei,
      questa fiamma crescente omai s'ammorze;
      fra loro entrate, e in ultimo lor danno
      or la forza s'adopri ed or l'inganno.

17      Sia destin ciò ch'io voglio: altri disperso
      se 'n vada errando, altri rimanga ucciso,
      altri in cure d'amor lascive immerso
      idol si faccia un dolce sguardo e un riso.
      Sia il ferro incontra 'l suo rettor converso
      da lo stuol ribellante e 'n sé diviso:
      pèra il campo e ruini, e resti in tutto
      ogni vestigio suo con lui distrutto."

18      Non aspettàr già l'alme a Dio rubelle
      che fosser queste voci al fin condotte;
      ma fuor volando a riveder le stelle
      già se n'uscian da la profonda notte,
      come sonanti e torbide procelle
      che vengan fuor de le natie lor grotte
      ad oscurar il cielo, a portar guerra
      a i gran regni del mar e de la terra.

19      Tosto, spiegando in vari lati i vanni,
      si furon questi per lo mondo sparti,
      e 'ncominciaro a fabricar inganni
      diversi e novi, e ad usar lor arti.
      Ma di' tu, Musa, come i primi danni
      mandassero a i cristiani e di quai parti;
      tu 'l sai, e di tant'opra a noi sí lunge
      debil aura di fama a pena giunge.

20      Reggea Damasco e le città vicine
      Idraote, famoso e nobil mago,
      che fin da' suoi prim'anni a l'indovine
      arti si diede, e ne fu ognor piú vago.
      Ma che giovàr, se non poté del fine
      di quella incerta guerra esser presago?
      Ned aspetto di stelle erranti o fisse,
      né risposta d'inferno il ver predisse.

21      Giudicò questi (ahi, cieca umana mente,
      come i giudizi tuoi son vani e torti!)
      ch'a l'essercito invitto d'Occidente
      apparecchiasse il Ciel ruine e morti;
      però, credendo che l'egizia gente
      la palma de l'impresa al fin riporti,
      desia che 'l popol suo ne la vittoria
      sia de l'acquisto a parte e de la gloria.

22      Ma perché il valor franco ha in grande stima,
      di sanguigna vittoria i danni teme;
      e va pensando con qual arte in prima
      il poter de' cristiani in parte sceme,
      sí che piú agevolmente indi s'opprima
      da le sue genti e da l'egizie insieme:
      in questo suo pensier il sovragiunge
      l'angelo iniquo, e piú l'instiga e punge.

23      Esso il consiglia, e gli ministra i modi
      onde l'impresa agevolar si pote.
      Donna a cui di beltà le prime lodi
      concedea l'Oriente, è sua nepote:
      gli accorgimenti e le piú occulte frodi
      ch'usi o femina o maga a lei son note.
      Questa a sé chiama e seco i suoi consigli
      comparte, e vuol che cura ella ne pigli.

24      Dice: "O diletta mia, che sotto biondi
      capelli e fra sí tenere sembianze
      canuto senno e cor virile ascondi,
      e già ne l'arti mie me stesso avanze,
      gran pensier volgo; e se tu lui secondi,
      seguiteran gli effetti a le speranze.
      Tessi la tela ch'io ti mostro ordita,
      di cauto vecchio essecutrice ardita.

25      Vanne al campo nemico: ivi s'impieghi
      ogn'arte feminil ch'amore alletti.
      Bagna di pianto e fa' melati i preghi,
      tronca e confondi co' sospiri i detti:
      beltà dolente e miserabil pieghi,
      al tuo volere i piú ostinati petti.
      Vela il soverchio ardir con la vergogna,
      e fa' manto del vero a la menzogna.

26      Prendi, s'esser potrà, Goffredo a l'esca
      de' dolci sguardi e de' be' detti adorni,
      sí ch'a l'uomo invaghito omai rincresca
      l'incominciata guerra, e la distorni.
      Se ciò non puoi, gli altri piú grandi adesca:
      menagli in parte ond'alcun mai non torni."
      Poi distingue i consigli; al fin le dice:
      "Per la fé, per la patria il tutto lice."

27      La bella Armida, di sua forma altera
      e de' doni del sesso e de l'etate,
      l'impresa prende, e in su la prima sera
      parte e tiene sol vie chiuse e celate;
      e 'n treccia e 'n gonna feminile spera
      vincer popoli invitti e schiere armate.
      Ma son del suo partir tra 'l vulgo ad arte
      diverse voci poi diffuse e sparte.

28      Dopo non molti dí vien la donzella
      dove spiegate i Franchi avean le tende.
      A l'apparir de la beltà novella
      nasce un bisbiglio e 'l guardo ognun v'intende,
      sí come là dove cometa o stella,
      non piú vista di giorno, in ciel risplende;
      e traggon tutti per veder chi sia
      sí bella peregrina, e chi l'invia.

29      Argo non mai, non vide Cipro o Delo
      d'abito o di beltà forme sí care:
      d'auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
      traluce involta, or discoperta appare.
      Cosí, qualor si rasserena il cielo,
      or da candida nube il sol traspare,
      or da la nube uscendo i raggi intorno
      piú chiari spiega e ne raddoppia il giorno.

30      Fa nove crespe l'aura al crin disciolto,
      che natura per sé rincrespa in onde;
      stassi l'avaro sguardo in sé raccolto,
      e i tesori d'amore e i suoi nasconde.
      Dolce color di rose in quel bel volto
      fra l'avorio si sparge e si confonde,
      ma ne la bocca, onde esce aura amorosa,
      sola rosseggia e semplice la rosa.

31      Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
      onde il foco d'Amor si nutre e desta.
      Parte appar de le mamme acerbe e crude,
      parte altrui ne ricopre invida vesta:
      invida, ma s'a gli occhi il varco chiude,
      l'amoroso pensier già non arresta,
      ché non ben pago di bellezza esterna
      ne gli occulti secreti anco s'interna.

32      Come per acqua o per cristallo intero
      trapassa il raggio, e no 'l divide o parte,
      per entro il chiuso manto osa il pensiero
      sí penetrar ne la vietata parte.
      Ivi si spazia, ivi contempla il vero
      di tante meraviglie a parte a parte;
      poscia al desio le narra e le descrive,
      e ne fa le sue fiamme in lui piú vive.

33      Lodata passa e vagheggiata Armida
      fra le cupide turbe, e se n'avede.
      No 'l mostra già, benché in suo cor ne rida,
      e ne disegni alte vittorie e prede.
      Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida
      che la conduca al capitan richiede,
      Eustazio occorse a lei, che del sovrano
      principe de le squadre era germano.

34      Come al lume farfalla, ei si rivolse
      a lo splendor de la beltà divina,
      e rimirar da presso i lumi volse
      che dolcemente atto modesto inchina;
      e ne trasse gran fiamma e la raccolse
      come da foco suole esca vicina,
      e disse verso lei, ch'audace e baldo
      il fea de gli anni e de l'amore il caldo:

35      "Donna, se pur tal nome a te conviensi,
      ché non somigli tu cosa terrena,
      né v'è figlia d'Adamo in cui dispensi
      cotanto il Ciel di sua luce serena,
      che da te si ricerca? ed onde viensi?
      qual tua ventura o nostra or qui ti mena?
      Fa' che sappia chi sei, fa' ch'io non erri
      ne l'onorarti; e s'è ragion, m'atterri."

36      Risponde: "Il tuo lodar troppo alto sale,
      né tanto in suso il merto nostro arriva.
      Cosa vedi, signor, non pur mortale,
      ma già morta a i diletti, al duol sol viva;
      mia sciagura mi spinge in loco tale,
      vergine peregrina e fuggitiva.
      Ricovro al pio Goffredo, e in lui confido
      tal va di sua bontate intorno il grido.

37      Tu l'adito m'impetra al capitano,
      s'hai, come pare, alma cortese e pia."
      Ed egli: "È ben ragion ch'a l'un germano
      l'altro ti guidi, e intercessor ti sia.
      Vergine bella, non ricorri in vano,
      non è vile appo lui la grazia mia;
      spender tutto potrai, come t'aggrada,
      ciò che vaglia il suo scettro o la mia spada."

38      Tace, e la guida ove tra i grandi eroi
      allor dal vulgo il pio Buglion s'invola.
      Essa inchinollo riverente, e poi
      vergognosetta non facea parola.
      Ma quei rossor, ma quei timori suoi
      rassecura il guerriero e riconsola,
      sí che i pensati inganni al fine spiega
      in suon che di dolcezza i sensi lega.

39      "Principe invitto," disse "il cui gran nome
      se 'n vola adorno di sí ricchi fregi
      che l'esser da te vinte e in guerra dome
      recansi a gloria le provincie e i regi,
      noto per tutto è il tuo valor; e come
      sin da i nemici avien che s'ami e pregi,
      cosí anco i tuoi nemici affida, e invita
      di ricercarti e d'impetrarne aita.

40      Ed io, che nacqui in sí diversa fede
      che tu abbassasti e ch'or d'opprimer tenti,
      per te spero acquistar la nobil sede
      e lo scettro regal de' miei parenti;
      e s'altri aita a i suoi congiunti chiede
      contro il furor de le straniere genti,
      io, poi che 'n lor non ha pietà piú loco,
      contra il mio sangue il ferro ostile invoco.

41      Io te chiamo, in te spero; e in quella altezza
      puoi tu sol pormi onde sospinta io fui,
      né la tua destra esser dée meno avezza
      di sollevar che d'atterrar altrui,
      né meno il vanto di pietà si prezza
      che 'l trionfar de gl'inimici sui;
      e s'hai potuto a molti il regno tòrre,
      fia gloria egual nel regno or me riporre.

42      Ma se la nostra fé varia ti move
      a disprezzar forse i miei preghi onesti,
      la fé, c'ho certa in tua pietà, mi giove,
      né dritto par ch'ella delusa resti.
      Testimone è quel Dio ch'a tutti è Giove
      ch'altrui piú giusta aita unqua non désti.
      Ma perché il tutto a pieno intenda, or odi
      le mie sventure insieme e l'altrui frodi.

43      Figlia i' son d'Arbilan, che 'l regno tenne
      del bel Damasco e in minor sorte nacque,
      ma la bella Cariclia in sposa ottenne,
      cui farlo erede del suo imperio piacque.
      Costei co 'l suo morir quasi prevenne
      il nascer mio, ch'in tempo estinta giacque
      ch'io fuori uscia de l'alvo; e fu il fatale
      giorno ch'a lei dié morte, a me natale.

44      Ma il primo lustro a pena era varcato
      dal dí ch'ella spogliossi il mortal velo,
      quando il mio genitor, cedendo al fato,
      forse con lei si ricongiunse in Cielo,
      di me cura lassando e de lo stato
      al fratel, ch'egli amò con tanto zelo
      che, se in petto mortal pietà risiede,
      esser certo dovea de la sua fede.

45      Preso dunque di me questi il governo,
      vago d'ogni mio ben si mostrò tanto
      che d'incorrotta fé, d'amor paterno
      e d'immensa pietade ottenne il vanto,
      o che 'l maligno suo pensiero interno
      celasse allor sotto contrario manto,
      o che sincere avesse ancor le voglie,
      perch'al figliuol mi destinava in moglie.

46      Io crebbi, e crebbe il figlio; e mai né stile
      di cavalier, né nobil arte apprese,
      nulla di pellegrino o di gentile
      gli piacque mai, né mai troppo alto intese;
      sotto diforme aspetto animo vile,
      e in cor superbo avare voglie accese:
      ruvido in atti, ed in costumi è tale
      ch'è sol ne' vizi a se medesmo eguale.

47      Ora il mio buon custode ad uom sí degno
      unirmi in matrimonio in sé prefisse,
      e farlo del mio letto e del mio regno
      consorte; e chiaro a me piú volte il disse.
      Usò la lingua e l'arte, usò l'ingegno
      perché 'l bramato effetto indi seguisse,
      ma promessa da me non trasse mai,
      anzi ritrosa ognor tacqui o negai.

48      Partissi alfin con un sembiante oscuro,
      onde l'empio suo cor chiaro trasparve;
      e ben l'istoria del mio mal futuro
      leggergli scritta in fronte allor mi parve.
      Quinci i notturni miei riposi furo
      turbati ognor da strani sogni e larve,
      ed un fatale orror ne l'alma impresso
      m'era presagio de' miei danni espresso.

49      Spesso l'ombra materna a me s'offria,
      pallida imago e dolorosa in atto,
      quanto diversa, oimè!, da quel che pria
      visto altrove il suo volto avea ritratto!
      `Fuggi, figlia,' dicea `morte sí ria
      che ti sovrasta omai, pàrtiti ratto,
      già veggio il tòsco e 'l ferro in tuo sol danno
      apparecchiar dal perfido tiranno.'

50      Ma che giovava, oimè!, che del periglio
      vicino omai fosse presago il core,
      s'irresoluta in ritrovar consiglio
      la mia tenera età rendea il timore?
      Prender fuggendo volontario essiglio,
      e ignuda uscir del patrio regno fuore,
      grave era sí ch'io fea minore stima
      di chiuder gli occhi ove gli apersi in prima.

51      Temea, lassa!, la morte, e non avea 
      (chi 'l crederia?) poi di fuggirla ardire;
      e scoprir la mia tema anco temea,
      per non affrettar l'ore al mio morire.
      Cosí inquieta e torbida traea
      la vita in un continuo martíre,
      qual uom ch'aspetti che su 'l collo ignudo
      ad or ad or gli caggia il ferro crudo.

52      In tal mio stato, o fosse amica sorte
      o ch'a peggio mi serbi il mio destino,
      un de' ministri de la regia corte,
      che 'l re mio padre s'allevò bambino,
      mi scoperse che 'l tempo a la mia morte
      dal tiranno prescritto era vicino,
      e ch'egli a quel crudele avea promesso
      di porgermi il venen quel giorno stesso.

53      E mi soggiunse poi ch'a la mia vita,
      sol fuggendo, allungar poteva il corso;
      e poi ch'altronde io non sperava aita,
      pronto offrí se medesmo al mio soccorso,
      e confortando mi rendé sí ardita
      che del timor non mi ritenne il morso,
      sí ch'io non disponessi a l'aer cieco,
      la patria e 'l zio fuggendo, andarne seco.

54      Sorse la notte oltra l'usato oscura,
      che sotto l'ombre amiche ne coperse,
      onde con due donzelle uscii secura,
      compagne elette a le fortune averse;
      ma pure indietro a le mie patrie mura
      le luci io rivolgea di pianto asperse,
      né de la vista del natio terreno
      potea, partendo, saziarle a pieno.

55      Fea l'istesso camin l'occhio e 'l pensiero,
      e mal suo grado il piede inanzi giva,
      sí come nave ch'improviso e fero
      turbine scioglia da l'amata riva.
      La notte andammo e 'l dí seguente intero
      per lochi ov'orma altrui non appariva;
      ci ricovrammo in un castello al fine
      che siede del mio regno in su 'l confine.

56      È d'Aronte il castel, ch'Aronte fue
      quel che mi trasse di periglio e scòrse.
      Ma poiché me fuggito aver le sue
      mortali insidie il traditor s'accorse,
      acceso di furor contr'ambedue,
      le sue colpe medesme in noi ritorse;
      ed ambo fece rei di quell'eccesso
      che commetter in me volse egli stesso.

57      Disse ch'Aronte i' avea con doni spinto
      fra sue bevande a mescolar veneno
      per non aver, poi ch'egli fosse estinto,
      chi legge mi prescriva o tenga a freno;
      e ch'io, seguendo un mio lascivo instinto,
      volea raccòrmi a mille amanti in seno.
      Ahi, che fiamma del cielo anzi in me scenda,
      santa onestà, ch'io le tue leggi offenda!

58      Ch'avara fame d'oro e sete insieme
      del mio sangue innocente il crudo avesse,
      grave m'è sí; ma via piú il cor mi preme
      che 'l mio candido onor macchiar volesse.
      L'empio, che i popolari impeti teme,
      cosí le sue menzogne adorna e tesse
      che la città, del ver dubbia e sospesa,
      sollevata non s'arma a mia difesa.

59      Né, perch'or sieda nel mio seggio e 'n fronte
      già gli risplenda la regal corona,
      pone alcun fine a i miei gran danni, a l'onte,
      sí la sua feritate oltra lo sprona.
      Arder minaccia entro 'l castello Aronte,
      se di proprio voler non s'imprigiona;
      ed a me, lassa!, e 'nsieme a i miei consorti
      guerra annunzia non pur, ma strazi e morti.

60      Ciò dice egli di far perché dal volto
      cosí lavarsi la vergogna crede,
      e ritornar nel grado, ond'io l'ho tolto,
      l'onor del sangue e de la regia sede;
      ma il timor n'è cagion che non ritolto
      gli sia lo scettro ond'io son vera erede,
      ché sol s'io caggio por fermo sostegno
      con le ruine mie pote al suo regno.

61      E ben quel fine avrà l'empio desire
      che già il tiranno ha stabilito in mente,
      e saran nel mio sangue estinte l'ire
      che dal mio lagrimar non fiano spente,
      se tu no 'l vieti. A te rifuggo, o sire,
      io misera fanciulla, orba, innocente;
      e questo pianto, ond'ho i tuoi piedi aspersi,
      vagliami sí che 'l sangue io poi non versi.

62      Per questi piedi ond'i superbi e gli empi
      calchi, per questa man che 'l dritto aita,
      per l'alte tue vittorie, e per que' tèmpi
      sacri cui désti e cui dar cerchi aita,
      il mio desir, tu che puoi solo, adempi
      e in un co 'l regno a me serbi la vita
      la tua pietà; ma pietà nulla giove,
      s'anco te il dritto e la ragion non move.

63      Tu, cui concesse il Cielo e dielti in fato
      voler il giusto e poter ciò che vuoi,
      a me salvar la vita, a te lo stato
      (ché tuo fia s'io 'l ricovro) acquistar puoi.
      Fra numero sí grande a me sia dato
      diece condur de' tuoi piú forti eroi,
      ch'avendo i padri amici e 'l popol fido,
      bastan questi a ripormi entro al mio nido.

64      Anzi un de' primi, a la cui fé commessa
      è la custodia di secreta porta,
      promette aprirla e ne la reggia stessa
      pórci di notte tempo, e sol m'essorta
      ch'io da te cerchi alcuna aita; e in essa,
      per picciola che sia, si riconforta
      piú che s'altronde avesse un grande stuolo,
      tanto l'insegne estima e 'l nome solo."

65      Ciò detto, tace; e la risposta attende,
      con atto che 'n silenzio ha voce e preghi.
      Goffredo il dubbio cor volve e sospende
      fra pensier vari, e non sa dove il pieghi.
      Teme i barbari inganni, e ben comprende
      che non è fede in uom ch'a Dio la neghi.
      Ma d'altra parte in lui pietoso affetto
      si desta, che non dorme in nobil petto.

66      Né pur l'usata sua pietà natia
      vuol che costei de la sua grazia degni,
      ma il move util ancor, ch'util gli fia
      che ne l'imperio di Damasco regni
      chi da lui dipendendo apra la via
      ed agevoli il corso a i suoi disegni,
      e genti ed arme gli ministri ed oro
      contra gli Egizi e chi sarà con loro.

67      Mentre ei cosí dubbioso a terra vòlto
      lo sguardo tiene, e 'l pensier volve e gira,
      la donna in lui s'affisa, e dal suo volto
      intenta pende e gli atti osserva e mira;
      e perché tarda oltra 'l suo creder molto
      la risposta, ne teme e ne sospira.
      Quegli la chiesta grazia al fin negolle,
      ma diè risposta assai cortese e molle:

68      "S'in servigio di Dio, ch'a ciò n'elesse,
      non s'impiegasser qui le nostre spade,
      ben tua speme fondar potresti in esse
      e soccorso trovar, non che pietade;
      ma se queste sue greggie e queste oppresse
      mura non torniam prima in libertade,
      giusto non è, con iscemar le genti,
      che di nostra vittoria il corso allenti.

69      Ben ti prometto (e tu per nobil pegno
      mia fé ne prendi, e vivi in lei secura)
      che se mai sottrarremo al giogo indegno
      queste sacre e dal Ciel dilette mura,
      di ritornarti al tuo perduto regno,
      come pietà n'essorta, avrem poi cura.
      Or mi farebbe la pietà men pio,
      s'anzi il suo dritto io non rendessi a Dio."

70      A quel parlar chinò la donna e fisse
      le luci a terra, e stette immota alquanto;
      poi sollevolle rugiadose e disse,
      accompagnando i flebil atti al pianto:
      "Misera! ed a qual altra il Ciel prescrisse
      vita mai grave ed immutabil tanto,
      che si cangia in altrui mente e natura
      pria che si cangi in me sorte sí dura?

71      Nulla speme piú resta, in van mi doglio:
      non han piú forza in uman petto i preghi.
      Forse lece sperar che 'l mio cordoglio,
      che te non mosse, il reo tiranno pieghi?
      Né già te d'inclemenza accusar voglio
      perché 'l picciol soccorso a me si neghi,
      ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende,
      che 'n te pietate innessorabil rende.

72      Non tu, signor, né tua bontade è tale,
      ma 'l mio destino è che mi nega aita.
      Crudo destino, empio destin fatale,
      uccidi omai questa odiosa vita.
      L'avermi priva, oimè!, fu picciol male
      de' dolci padri in loro età fiorita,
      se non mi vedi ancor, del regno priva,
      qual vittima al coltello andar cattiva.

73      Ché, poi che legge d'onestate e zelo
      non vuol che qui sí lungamente indugi,
      a cui ricovro intanto? ove mi celo?
      o quai contra il tiranno avrò rifugi?
      Nessun loco sí chiuso è sotto il cielo
      ch'a l'or non s'apra: or perché tanti indugi?
      Veggio la morte, e se 'l fuggirla è vano,
      incontro a lei n'andrò con questa mano."

74      Qui tacque, e parve ch'un regale sdegno
      e generoso l'accendesse in vista;
      e 'l piè volgendo di partir fea segno,
      tutta ne gli atti dispettosa e trista.
      Il pianto si spargea senza ritegno,
      com'ira suol produrlo a dolor mista,
      e le nascenti lagrime a vederle
      erano a i rai del sol cristallo e perle.

75      Le guancie asperse di que' vivi umori
      che giú cadean sin de la veste al lembo,
      parean vermigli insieme e bianchi fiori,
      se pur gli irriga un rugiadoso nembo,
      quando su l'apparir de' primi albori
      spiegano a l'aure liete il chiuso grembo;
      e l'alba, che li mira e se n'appaga,
      d'adornarsene il crin diventa vaga.

76      Ma il chiaro umor, che di sí spesse stille
      le belle gote e 'l seno adorno rende,
      opra effetto di foco, il qual in mille
      petti serpe celato e vi s'apprende.
      O miracol d'Amor, che le faville
      tragge del pianto, e i cor ne l'acqua accende!
      Sempre sovra natura egli ha possanza.
      ma in virtú di costei se stesso avanza.

77      Questo finto dolor da molti elice
      lagrime vere, e i cor piú duri spetra.
      Ciascun con lei s'affligge, e fra sé dice:
      "Se mercé da Goffredo or non impetra,
      ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice,
      e 'l produsse in aspr'alpe orrida pietra
      o l'onda che nel mar si frange e spuma:
      crudel, che tal beltà turba e consuma."

78      Ma il giovenetto Eustazio, in cui la face
      di pietade e d'amore è piú fervente,
      mentre bisbiglia ciascun altro, e tace,
      si tragge avanti e parla audacemente:
      "O germano e signor, troppo tenace
      del suo primo proposto è la tua mente,
      s'al consenso comun, che brama e prega,
      arrendevole alquanto or non si piega.

79      Non dico io già che i principi, ch'a cura
      si stanno qui de' popoli soggetti,
      torcano il piè da l'oppugnate mura,
      e sian gli uffici lor da lor negletti;
      ma fra noi, che guerrier siam di ventura,
      senz'alcun proprio peso e meno astretti
      a le leggi de gli altri, elegger diece
      difensori del giusto a te ben lece;

80      ch'al servigio di Dio già non si toglie
      l'uom ch'innocente vergine difende,
      ed assai care al Ciel son quelle spoglie
      che d'ucciso tiranno altri gli appende.
      Quando dunque a l'impresa or non m'invoglie
      quell'util certo che da lei s'attende,
      mi ci move il dover, ch'a dar tenuto
      è l'ordin nostro a le donzelle aiuto.

81      Ah! non sia ver, per Dio, che si ridica
      in Francia, o dove in pregio è cortesia,
      che si fugga da noi rischio o fatica
      per cagion cosí giusta e cosí pia.
      Io per me qui depongo elmo e lorica,
      qui mi scingo la spada, e piú non fia
      ch'adopri indegnamente arme o destriero,
      o 'l nome usurpi mai di cavaliero."

82      Cosí favella; e seco in chiaro suono
      tutto l'ordine suo concorde freme,
      e chiamando il consiglio utile e buono
      co' preghi il capitan circonda e preme.
      "Cedo," egli disse allora "e vinto sono
      al concorso di tanti uniti insieme;
      abbia, se parvi, il chiesto don costei
      da i vostri sí, non da i consigli miei.

83      Ma se Goffredo di credenza alquanto
      pur trova in voi, temprate i vostri affetti."
      Tanto ei sol disse, e basta lor ben tanto
      perché ciascun quel che concede accetti.
      Or che non può di bella donna il pianto,
      ed in lingua amorosa i dolci detti?
      Esce da vaghe labra aurea catena
      che l'alme a suo voler prende ed affrena.

84      Eustazio lei richiama, e dice: "Omai
      cessi, vaga donzella, il tuo dolore,
      ché tal da noi soccorso in breve avrai
      qual par che piú 'l richieggia il tuo timore."
      Serenò allora i nubilosi rai
      Armida, e sí ridente apparve fuore
      ch'innamorò di sue bellezze il cielo
      asciugandosi gli occhi co 'l bel velo.

85      Rendé lor poscia, in dolci e care note,
      grazie per l'alte grazie a lei concesse,
      mostrando che sariano al mondo note
      mai sempre, e sempre nel suo core impresse;
      e ciò che lingua esprimer ben non pote,
      muta eloquenza ne' suoi gesti espresse,
      e celò sí sotto mentito aspetto
      il suo pensier ch'altrui non diè sospetto.

86      Quinci vedendo che furtuna arriso
      al gran principio di sue frodi avea,
      prima che 'l suo pensier le sia preciso,
      dispon di trarre al fin opra sí rea,
      e far con gli atti dolci e co 'l bel viso
      piú che con l'arti lor Circe o Medea,
      e in voce di sirena a i suoi concenti
      addormentar le piú svegliate menti.

87      Usa ogn'arte la donna, onde sia colto
      ne la sua rete alcun novello amante;
      né con tutti, né sempre un stesso volto
      serba, ma cangia a tempo atti e sembiante.
      Or tien pudica il guardo in sé raccolto,
      or lo rivolge cupido e vagante:
      la sferza in quegli, il freno adopra in questi,
      come lor vede in amar lenti o presti.

88      Se scorge alcun che dal suo amor ritiri
      l'alma, e i pensier per diffidenza affrene,
      gli apre un benigno riso, e in dolci giri
      volge le luci in lui liete e serene;
      e cosí i pigri e timidi desiri
      sprona, ed affida la dubbiosa spene,
      ed infiammando l'amorose voglie
      sgombra quel gel che la paura accoglie.

89      Ad altri poi, ch'audace il segno varca
      scòrto da cieco e temerario duce,
      de' cari detti e de' begli occhi è parca,
      e in lui timore e riverenza induce.
      Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca,
      pur anco un raggio di pietà riluce,
      sí ch'altri teme ben, ma non dispera,
      e piú s'invoglia quanto appar piú altera.

90      Stassi tal volta ella in disparte alquanto
      e 'l volto e gli atti suoi compone e finge
      quasi dogliosa, e in fin su gli occhi il pianto
      tragge sovente e poi dentro il respinge;
      e con quest'arti a lagrimar intanto
      seco mill'alme semplicette astringe,
      e in foco di pietà strali d'amore
      tempra, onde pèra a sí fort'arme il core.

91      Poi, sí come ella a quei pensier s'invole
      e novella speranza in lei si deste,
      vèr gli amanti il piè drizza e le parole,
      e di gioia la fronte adorna e veste;
      e lampeggiar fa, quasi un doppio sole,
      il chiaro sguardo e 'l bel riso celeste
      su le nebbie del duolo oscure e folte,
      ch'avea lor prima intorno al petto accolte.

92      Ma mentre dolce parla e dolce ride,
      e di doppia dolcezza inebria i sensi,
      quasi dal petto lor l'alma divide,
      non prima usata a quei diletti immensi.
      Ahi crudo Amor, ch'egualmente n'ancide
      l'assenzio e 'l mèl che tu fra noi dispensi,
      e d'ogni tempo egualmente mortali
      vengon da te le medicine e i mali!

93      Fra sí contrarie tempre, in ghiaccio e in foco,
      in riso e in pianto, e fra paura e spene,
      inforsa ogni suo stato, e di lor gioco
      l'ingannatrice donna a prender viene;
      e s'alcun mai con suon tremante e fioco
      osa parlando d'accennar sue pene,
      finge, quasi in amor rozza e inesperta,
      non veder l'alma ne' suoi detti aperta.

94      O pur le luci vergognose e chine
      tenendo, d'onestà s'orna e colora,
      sí che viene a celar le fresche brine
      sotto le rose onde il bel viso infiora,
      qual ne l'ore piú fresche e matutine
      del primo nascer suo veggiam l'aurora;
      e 'l rossor de lo sdegno insieme n'esce
      con la vergogna, e si confonde e mesce.

95      Ma se prima ne gli atti ella s'accorge
      d'uom che tenti scoprir l'accese voglie,
      or gli s'invola e fugge, ed or gli porge
      modo onde parli e in un tempo il ritoglie;
      cosí il dí tutto in vano error lo scorge
      stanco, e deluso poi di speme il toglie.
      Ei si riman qual cacciator ch'a sera
      perda al fin l'orma di seguita fèra.

96      Queste fur l'arti onde mill'alme e mille
      prender furtivamente ella poteo,
      anzi pur furon l'arme onde rapille
      ed a forza d'Amor serve le feo.
      Qual meraviglia or fia s'il fero Achille
      d'Amor fu preda, ed Ercole e Teseo,
      s'ancor chi per Giesú la spada cinge
      l'empio ne' lacci suoi talora stringe?