Gerusalemme liberata, canti 10-11-12

POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO AL SERENISSIMO SIGNORE IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA

canto DECIMO


1       Cosí dicendo ancor vicino scorse
      un destrier ch'a lui volse errante il passo;
      tosto al libero fren la mano ei porse
      e su vi salse, ancorch'afflitto e lasso.
      Già caduto è il cimier ch'orribil sorse,
      fasciando l'elmo inonorato e basso;
      rotta è la sopravesta, e di superba
      pompa regal vestigio alcun non serba.

2       Come dal chiuso ovil cacciato viene
      lupo talor che fugge e si nasconde,
      che, se ben del gran ventre omai ripiene
      ha l'ingorde voragini profonde,
      avido pur di sangue anco fuor tiene
      la lingua e 'l sugge da le labra immonde,
      tale ei se 'n gía dopo il sanguigno strazio,
      de la sua cupa fame anco non sazio.

3       E come è sua ventura, a le sonanti
      quadrella, ond'a lui intorno un nembo vola,
      a tante spade, a tante lancie, a tanti
      instrumenti di morte alfin s'invola,
      e sconosciuto pur camina inanti
      per quella via ch'è piú deserta e sola;
      e rivolgendo in sé quel che far deggia,
      in gran tempesta di pensieri ondeggia.

4       Disponsi alfin di girne ove raguna
      oste sí poderosa il re d'Egitto,
      e giunger seco l'arme, e la fortuna
      ritentar anco di novel conflitto.
      Ciò prefisso tra sé, dimora alcuna
      non pone in mezzo e prende il camin dritto,
      ché sa le vie, né d'uopo ha di chi il guidi
      di Gaza antica a gli arenosi lidi.

5       Né perché senta inacerbir le doglie
      de le sue piaghe, e grave il corpo ed egro,
      vien però che si posi e l'arme spoglie,
      ma travagliando il dí ne passa integro.
      Poi quando l'ombra oscura al mondo toglie
      i vari aspetti e i color tinge in negro,
      smonta e fascia le piaghe, e come pote
      meglio, d'un'alta palma i frutti scote;

6       e cibato di lor, su 'l terren nudo
      cerca adagiare il travagliato fianco,
      e la testa appoggiando al duro scudo
      quetar i moti del pensier suo stanco.
      Ma d'ora in ora a lui si fa piú crudo
      sentire il duol de le ferite, ed anco
      roso gli è il petto e lacerato il core
      da gli interni avoltoi, sdegno e dolore.

7       Alfin, quando già tutto intorno chete
      ne la piú alta notte eran le cose,
      vinto egli pur da la stanchezza, in Lete
      sopí le cure sue gravi e noiose,
      e in una breve e languida quiete
      l'afllitte membra e gli occhi egri compose;
      e mentre ancor dormia, voce severa
      gli intonò su l'orecchie in tal maniera:

8       "Soliman, Solimano, i tuoi sí lenti
      riposi a miglior tempo omai riserva,
      ché sotto il giogo di straniere genti
      la patria ove regnasti ancor è serva.
      In questa terra dormi, e non rammenti
      ch'insepolte de' tuoi l'ossa conserva?
      ove sí gran vestigio è del tuo scorno,
      tu neghittoso aspetti il novo giorno?"

9       Desto il Soldan alza lo sguardo, e vede
      uom che d'età gravissima a i sembianti
      co 'l ritorto baston del vecchio piede
      ferma e dirizza le vestigia erranti.
      "E chi sei tu," sdegnoso a lui richiede
      "che fantasma importuno a i viandanti
      rompi i brevi lor sonni? e che s'aspetta
      a te la mia vergngna o la vendetta?"

10      "Io mi son un" risponde il vecchio "al quale
      in parte è noto il tuo novel disegno,
      e sí come uomo a cui di te piú cale
      che tu forse non pensi, a te ne vegno;
      né il mordace parlare indarno è tale,
      perché de la virtú cote è lo sdegno.
      Prendi in grado, signor, che 'l mio sermone
      al tuo pronto valor sia sferza e sprone.

11      Or perché, s'io m'appongo, esser dée vòlto
      al gran re de l'Egitto il tuo camino,
      che inutilmente aspro viaggio tolto
      avrai, s'inanzi segui, io m'indovino;
      ché, se ben tu non vai, fia tosto accolto
      e tosto mosso il campo saracino,
      né loco è là dove s'impieghi e mostri
      la tua virtú contra i nemici nostri.

12      Ma se 'n duce me prendi, entro quel muro,
      che da l'arme latine è intorno astretto,
      nel piú chiaro del dí pórti securo,
      senza che spada impugni, io ti prometto.
      Quivi con l'arme e co' disagi un duro
      contrasto aver ti fia gloria e diletto;
      difenderai la terra insin che giugna
      l'oste d'Egitto a rinovar la pugna."

13      Mentre ei ragiona ancor, gli occhi e la voce
      de l'uomo antico il fero turco ammira,
      e dal volto e da l'animo feroce
      tutto depone omai l'orgoglio e l'ira.
      "Padre," risponde "io già pronto e veloce
      sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.
      A me sempre miglior parrà il consiglio
      ove ha piú di fatica e di periglio."

14      Loda il vecchio i suoi detti; e perché l'aura
      notturna avea le piaghe incrudelite,
      un suo licor v'instilla, onde ristaura
      le forze e salda il sangue e le ferite.
      Quinci veggendo omai ch'Apollo inaura
      le rose che l'aurora ha colorite:
      "Tempo è" disse "al partir, ché già ne scopre
      le strade il sol ch'altrui richiama a l'opre."

15      E sovra un carro suo, che non lontano
      quinci attendea, co 'l fer niceno ei siede;
      le briglie allenta, e con maestra mano
      ambo i corsieri alternamente fiede.
      Quei vanno sí che 'l polveroso piano
      non ritien de la rota orma o del piede;
      fumar li vedi ed anelar nel corso,
      e tutto biancheggiar di spuma il morso.

16      Maraviglie dirò: s'aduna e stringe
      l'aer d'intorno in nuvolo raccolto,
      sí che 'l gran carro ne ricopre e cinge,
      ma non appar la nube o poco o molto,
      né sasso, che mural machina spinge,
      penetraria per lo suo chiuso e folto;
      ben veder ponno i duo dal curvo seno
      la nebbia intorno e fuori il ciel sereno.

17      Stupido il cavalier le ciglia inarca,
      ed increspa la fronte, e mira fiso
      la nube e 'l carro ch'ogni intoppo varca
      veloce sí che di volar gli è aviso.
      L'altro, che di stupor l'anima carca
      gli scorge a l'atto de l'immobil viso,
      gli rompe quel silenzio e lui rappella,
      ond'ei si scote e poi cosí favella:

18      "O chiunque tu sia, che fuor d'ogni uso
      pieghi natura ad opre altere e strane,
      e spiando i secreti, entro al piú chiuso
      spazii a tua voglia de le menti umane,
      s'arrivi co 'l saper, ch'è d'alto infuso,
      a le cose remote anco e lontane,
      deh! dimmi qual riposo o qual ruina
      ai gran moti de l'Asia il Ciel destina.

19      Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte
      far cose tu sí inusitate soglia,
      ché se pria lo stupor da me non parte,
      com'esser può ch'io gli altri detti accoglia?"
      Sorrise il vecchio, e disse: "In una parte
      mi sarà leve l'adempir tua voglia.
      Son detto Ismeno, e i Siri appellan mago
      me che de l'arti incognite son vago.

20      Ma ch'io scopra il futuro e ch'io dispieghi
      de l'occulto destin gli eterni annali,
      troppo è audace desio, troppo alti preghi:
      non è tanto concesso a noi mortali.
      Ciascun qua giú le forze e 'l senno impieghi
      per avanzar fra le sciagure e i mali,
      ché sovente adivien che 'l saggio e 'l forte
      fabro a se stesso è di beata sorte.

21      Tu questa destra invitta, a cui fia poco
      scoter le forze del francese impero,
      non che munir, non che guardar il loco
      che strettamente oppugna il popol fero,
      contra l'arme apparecchia e contra 'l foco:
      osa, soffri, confida; io bene spero.
      Ma pur dirò, perché piacer ti debbia,
      ciò che oscuro vegg'io quasi per nebbia.

22      Veggio o parmi vedere, anzi che lustri
      molti rivolga il gran pianeta eterno,
      uom che l'Asia ornerà co' fatti illustri,
      e del fecondo Egitto avrà il governo.
      Taccio i pregi de l'ozio e l'arti industri,
      mille virtú che non ben tutte io scerno;
      basti sol questo a te, che da lui scosse
      non pur saranno le cristiane posse,

23      ma insin dal fondo suo l'imperio ingiusto
      svelto sarà ne l'ultime contese,
      e le afflitte reliquie entro uno angusto
      giro sospinte e sol dal mar difese.
      Questi fia del tuo sangue." E qui il vetusto
      mago si tacque, e quegli a dir riprese:
      "O lui felice, eletto a tanta lode!"
      e parte ne l'invidia e parte gode.

24      Soggiunse poi: "Girisi pur Fortuna
      o buona o rea, come è là su prescritto,
      ché non ha sovra me ragione alcuna
      e non mi vedrà mai se non invitto.
      Prima dal corso distornar la luna
      e le stelle potrà, che dal diritto
      torcere un sol mio passo." E in questo dire
      sfavillò tutto di focoso ardire.

25      Cosí gír ragionando insin che furo
      là 've presso vedean le tende alzarse.
      Che spettacolo fu crudele e duro!
      E in quante forme ivi la morte apparse!
      Si fe' ne gli occhl allor torbido e scuro,
      e di doglia il Soldano il volto sparse.
      Ahi con quanto dispregio ivi le degne
      mirò giacer sue già temute insegne!

26      E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti
      spesso calcar de' suoi piú noti amici,
      e con fasto superbo a gli insepolti
      l'arme spogliare e gli abiti infelici;
      molti onorare in lunga pompa accolti
      gli amati corpi de gli estremi uffici,
      altri suppor le fiamme, e 'l vulgo misto
      d'Arabi e Turchi a un foco arder ha visto.

27      Sospirò dal profondo, e 'l ferro trasse
      e dal carro lanciossi e correr volle,
      ma il vecchio incantatore a sé il ritrasse
      sgridando, e raffrenò l'impeto folle;
      e fatto che di novo ei rimontasse,
      drizzò il suo corso al piú sublime colle.
      Cosí alquanto n'andaro, insin ch'a tergo
      lasciàr de' Franchi il militare albergo.

28      Smontaro allor del carro, e quel repente
      sparve; e presono a piedi insieme il calle
      ne la solita nube occultamente
      discendendo a sinistra in una valle,
      sin che giunsero là dove al ponente
      l'alto monte Siòn volge le spalle.
      Quivi si ferma il mago e poi s'accosta
      quasi mirando, a la scoscesa costa.

29      Cava grotta s'apria nel duro sasso,
      di lunghissimi tempi avanti fatta;
      ma disusando, or riturato il passo
      era tra i pruni e l'erbe ove s'appiatta.
      Sgombra il mago gli intoppi, e curvo e basso
      per l'angusto sentiero a gir s'adatta,
      e l'una man precede e il varco tenta,
      l'altra per guida al principe appresenta.

30      Dice allora il Soldan: "Qual via furtiva
      è questa tua, dove convien ch'io vada?
      Altra forse miglior io me n'apriva,
      se 'l concedevi tu, con la mia spada."
      "Non sdegnar," gli risponde "anima schiva,
      premer co 'l forte piè la buia strada,
      ché già solea calcarla il grande Erode,
      quel c'ha ne l'arme ancor sí chiara lode.

31      Cavò questa spelonca allor che porre
      volse freno a i soggetti il re ch'io dico,
      e per essa potea da quella torre,
      ch'egli Antonia appellò dal chiaro amico,
      invisibile a tutti il piè raccòrre
      dentro la soglia del gran tempio antico,
      e quindi occulto uscir de la cittate
      e trarne genti ed introdur celate.

32      Ma nota è questa via solinga e bruna
      or solo a me de gli uomini viventi.
      Per questa andremo al loco ove raguna
      i piú saggi a conciglio e i piú potenti
      il re ch'al minacciar de la fortuna,
      piú forse che non dée, par che paventi.
      Ben tu giungi a grand'uopo: ascolta e taci,
      poi movi a tempo le parole audaci."

33      Cosí gli disse, e 'l cavaliero allotta
      co 'l gran corpo ingombrò l'umil caverna,
      e per le vie dove mai sempre annotta
      seguí colui che 'l suo camin governa.
      Chini pria se n'andàr, ma quella grotta
      piú si dilata quanto piú s'interna,
      sí ch'asceser con agio e tosto furo
      a mezzo quasi di quell'antro oscuro.

34      Apriva allora un picciol uscio Ismeno,
      e se ne gian per disusata scala
      a cui luce mal certo e mal sereno
      l'aer che giú d'alto spiraglio cala.
      In sotterraneo chiostro al fin venieno,
      e salian quindi in chiara e nobil sala.
      Qui con lo scettro e co 'l diadema in testa
      mesto sedeasi il re fra gente mesta.

35      Da la concava nube il turco fero
      non veduto rimira e spia d'intorno,
      e ode il re fra tanto, il qual primiero
      incomincia cosí dal seggio adorno:
      "Veramente, o miei fidi, al nostro impero
      fu il trapassato assai dannoso giorno;
      e caduti d'altissima speranza,
      sol l'aiuto d'Egitto omai n'avanza.

36      Ma ben vedete voi quanto la speme
      lontana sia da sí vicin periglio.
      Dunque voi tutti ho qui raccolti insieme
      perch'ognun porti in mezzo il suo consiglio."
      Qui tace, e quasi in bosco aura che freme
      suona d'intorno un picciolo bisbiglio.
      Ma con la faccia baldanzosa e lieta
      sorgendo Argante il mormorare accheta.

37      "O magnanimo re," fu la risposta
      del cavaliero indomito e feroce
      "perché ci tenti? e cosa a nullo ascosta
      chiedi, ch'uopo non ha di nostra voce?
      Pur dirò: sia la speme in noi sol posta;
      e s'egli è ver che nulla a virtú noce,
      di questa armiamci, a lei chiediamo aita,
      né piú ch'ella si voglia amiam la vita.

38      Né parlo io già cosí perch'io dispere
      de l'aiuto certissimo d'Egitto,
      ché dubitar, se le promesse vere
      fian del mio re, non lece e non è dritto;
      ma il dico sol perché desio vedere
      in alcuni di noi spirto piú invitto,
      ch'egualmente apprestato ad ogni sorte
      si prometta vittoria e sprezzi morte."

39      Tanto sol disse il generoso Argante
      quasi uom che parli di non dubbia cosa.
      Poi sorse in autorevole sembiante
      Orcano, uom d'alta nobiltà famosa,
      e già ne l'arme d'alcun pregio inante;
      ma or congiunto a giovanetta sposa,
      e lieto omai di figli, era invilito
      ne gli affetti di padre e di marito.

40      Disse questi: "O signor, già non accuso
      il fervor di magnifiche parole,
      quando nasce d'ardir che star rinchiuso
      tra i confini del cor non può né vòle;
      però se 'l buon circasso a te per uso
      troppo in vero parlar fervido sòle,
      ciò si conceda a lui che poi ne l'opre
      il medesmo fervor non meno scopre.

41      Ma si conviene a te, cui fatto il corso
      de le cose e de' tempi han sí prudente,
      impor colà de' tuoi consigli il morso
      dove costui se ne trascorre ardente,
      librar la speme del lontan soccorso
      co 'l periglio vicino, anzi presente,
      e con l'arme e con l'impeto nemico
      i tuoi novi ripari e 'l muro antico.

42      Noi (se lece a me dir quel ch'io ne sento)
      siamo in forte città di sito e d'arte,
      ma di machine grande e violento
      apparato si fa da l'altra parte.
      Quel che sarà, non so; spero e pavento
      i giudizi incertissimi di Marte,
      e temo che s'a noi piú fia ristretto
      l'assedio, al fin di cibo avrem difetto.

43      Però che quegli armenti e quelle biade
      ch'ieri tu ricettasti entro le mura,
      mentre nel campo a insanguinar le spade
      s'attendea solo, e fu alta ventura,
      picciol esca a gran fame, ampia cittade
      nutrir mal ponno se l'assedio dura;
      e forza è pur che duri, ancor che vegna
      l'oste d'Egitto il dí ch'ella disegna.

44      Ma che fia, se piú tarda? Or sú, concedo
      che tua speme prevegna e sue promesse;
      la vittoria però, però non vedo
      liberate, o signor, le mura oppresse.
      Combattremo, o buon re, con quel Goffredo
      e con que' duci e con le genti istesse
      che tante volte han già rotti e dispersi
      gli Arabi, i Turchi, i Soriani e i Persi.

45      E quali sian, tu 'l sai, che lor cedesti
      sí spesso il campo, o valoroso Argante,
      e sí spesso le spalle anco volgesti
      fidando assai ne le veloci piante;
      e 'l sa Clorinda teco ed io con questi
      ch'un piú de l'altro non convien si vante.
      Né incolpo alcuno io già, ché vi fu mostro
      quanto potea maggiore il valor nostro.

46      E dirò pur (benché costui di morte
      bieco minacci e 'l vero udir si sdegni):
      veggio portar da inevitabil sorte
      il nemico fatale a certi segni,
      né gente potrà mai, né muro forte
      impedirlo cosí ch'al fin non regni;
      ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo)
      del signor, de la patria, amore e zelo.

47      Oh saggio il re di Tripoli, che pace
      seppe impetrar da i Franchi e regno insieme!
      Ma il Soldano ostinato o morto or giace,
      or pur servil catena il piè gli preme,
      o ne l'essiglio timido e fugace
      si va serbando a le miserie estreme;
      e pur, cedendo parte, avria potuto
      parte salvar co' doni e co 'l tributo."

48      Cosí diceva, e s'avolgea costui
      con giro di parole obliquo e incerto,
      ch'a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
      già non ardia di consigliarlo aperto.
      Ma sdegnoso il Soldano i detti sui
      non potea omai piú sostener coperto,
      quando il mago gli disse: "Or vuoi tu darli
      agio, signor, ch'in tal materia parli?"

49      "Io per me" gli risponde "or qui mi celo
      contra mio grado, e d'ira ardo e di scorno."
      Ciò disse a pena, e immantinente il velo
      de la nube, che stesa è lor d'intorno,
      si fende e purga ne l'aperto cielo,
      ed ei riman nel luminoso giorno,
      e magnanimamente in fero viso
      rifulge in mezzo, e lor parla improviso:

50      "Io, di cui si ragiona, or son presente,
      non fugace e non timido Soldano,
      ed a costui ch'egli è codardo e mente
      m'offero di provar con questa mano.
      Io che sparsi di sangue ampio torrente,
      che montagne di strage alzai su 'l piano,
      chiuso nel vallo de' nemici e privo
      al fin d'ogni compagno, io fuggitivo?

51      Ma se piú questi o s'altri a lui simíle,
      a la sua patria, a la sua fede infido,
      motto osa far d'accordo infame e vile,
      buon re, sia con tua pace, io qui l'uccido.
      Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile
      e le colombe e i serpi in un sol nido,
      prima che mai di non discorde voglia
      noi co' Francesi alcuna terra accoglia."

52      Tien su la spada, mentre ei sí favella,
      la fera destra in minaccievol atto.
      Riman ciascuno a quel parlar, a quella
      orribil faccia, muto e stupefatto.
      Poscia con vista men turbata e fella
      cortesemente inverso il re s'è tratto:
      "Spera," gli dice "alto signor, ch'io reco
      non poco aiuto: or Solimano è teco."

53      Aladin, ch'a lui contra era già sorto,
      risponde: "Oh come lieto or qui ti veggio,
      diletto amico! Or del mio stuol ch'è morto
      non sento il danno; assai temea di peggio.
      Tu lo mio stabilire e in tempo corto
      puoi ridrizzar il tuo caduto seggio,
      se 'l Ciel no 'l vieta." Indi le braccia al collo,
      cosí detto, gli stese e circondollo.

54      Finita l'accoglienza, il re concede
      il suo medesmo soglio al gran niceno.
      Egli poscia a sinistra in nobil sede
      si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno,
      e mentre seco parla ed a lui chiede
      di lor venuta, ed ei risponde a pieno,
      l'alta donzella ad onorar in pria
      vien Solimano; ogn'altro indi seguia.

55      Seguí fra gl'altri Ormusse, il qual la schiera
      di quegli Arabi suoi a guidar tolse;
      e mentre la battaglia ardea piú fera,
      per disusate vie cosí s'avolse
      ch'aiutando il silenzio e l'aria nera
      lei salva al fin nella città raccolse,
      e con le biade e con rapiti armenti
      aita porse a l'affamate genti.

56      Sol con la faccia torva e disdegnosa
      tacito si rimase il fer circasso,
      a guisa di leon quando si posa,
      girando gli occhi e non movendo il passo.
      Ma nel Soldan feroce alzar non osa
      Orcano il volto, e 'l tien pensoso e basso.
      Cosí a conciglio il palestin tiranno
      e 'l re de' Turchi e i cavalier qui stanno.

57      Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti
      avea seguiti, e libere le vie,
      e fatto intanto a i suoi guerrieri estinti
      l'ultimo onor di sacre essequie e pie;
      ed ora a gli altri impon che siano accinti
      a dar l'assalto nel secondo die,
      e con maggiore e piú terribil faccia
      di guerra i chiusi barbari minaccia.

58      E perché conosciuto avea il drapello,
      ch'aiutò lui contra la gente infida,
      esser de' suoi piú cari ed esser quello
      che già seguí l'insidiosa guida,
      e Tancredi con lor, che nel castello
      prigion restò de la fallace Armida,
      ne la presenza sol de l'Eremita
      e d'alcuni piú saggi a sé gli invita;

59      e dice lor: "Prego ch'alcun racconti
      de' vostri brevi errori il dubbio corso,
      e come poscia vi trovaste pronti
      in sí grand'uopo a dar sí gran soccorso."
      Vergognando tenean basse le fronti,
      ch'era al cor picciol fallo amaro morso.
      Al fin del re britanno il chiaro figlio
      ruppe il silenzio, e disse alzando il ciglio:

60      "Partimmo noi che fuor de l'urna a sorte
      tratti non fummo, ognun per sé nascoso,
      d'Amor, no 'l nego, le fallaci scorte
      seguendo e d'un bel volto insidioso.
      Per vie ne trasse disusate e torte
      fra noi discordi, e in sé ciascun geloso.
      Nutrian gli amori e i nostri sdegni (ah! tardi
      troppo il conosco) or parolette, or guardi.

61      Al fin giungemmo al loco ove già scese
      fiamma dal cielo in dilatate falde,
      e di natura vendicò l'offese
      sovra le genti in mal oprar sí salde.
      Fu già terra feconda, almo paese,
      or acque son bituminose e calde
      e steril lago; e quanto ei torpe e gira,
      compressa è l'aria e grave il puzzo spira.

62      Questo è lo stagno in cui nulla di greve
      si getta mai che giunga insino al basso,
      ma in guisa pur d'abete o d'orno leve
      l'uom vi sornuota e 'l duro ferro e 'l sasso.
      Siede in esso un castello, e stretto e breve
      ponte concede a' peregrini il passo.
      Ivi n'accolse, e non so con qual arte
      vaga è là dentro e ride ogni sua parte.

63      V'è l'aura molle e 'l ciel sereno e lieti
      gli alberi e i prati e pure e dolci l'onde,
      ove fra gli amenissimi mirteti
      sorge una fonte e un fiumicel diffonde:
      piovono in grembo a l 'erbe i sonni queti
      con un soave mormorio di fronde,
      cantan gli augelli: i marmi io taccio e l'oro
      meravigliosi d'arte e di lavoro.

64      Apprestar su l'erbetta, ov'è piú densa
      l'ombra e vicino al suon de l'acque chiare,
      fece di sculti vasi altera mensa
      e ricca di vivande elette e care.
      Era qui ciò ch'ogni stagion dispensa,
      ciò che dona la terra o manda il mare,
      ciò che l'arte condisce; e cento belle
      servivano al convito accorte ancelle.

65      Ella d'un parlar dolce e d'un bel riso
      temprava altrui cibo mortale e rio.
      Or mentre ancor ciascuno a mensa assiso
      beve con lungo incendio un lungo oblio,
      sorse e disse: `Or qui riedo.' E con un viso
      ritornò poi non sí tranquillo e pio.
      Con una man picciola verga scote,
      tien l'altra un libro, e legge in basse note.

66      Legge la maga, ed io pensiero e voglia
      sento mutar, mutar vita ed albergo.
      (Strana virtú) novo pensier m'invoglia:
      salto ne l'acqua, e mi vi tuffo e immergo.
      Non so come ogni gamba entro s'accoglia,
      come l'un braccio e l'altro entri nel tergo,
      m'accorcio e stringo, e su la pelle cresce
      squamoso il cuoio; e d'uom son fatto un pesce.

67      Cosí ciascun de gli altri anco fu vòlto
      e guizzò meco in quel vivace argento.
      Quale allor mi foss'io, come di stolto
      vano e torbido sogno, or me 'n rammento.
      Piacquele al fin tornarci il proprio volto;
      ma tra la meraviglia e lo spavento
      muti eravam, quando turbata in vista
      in tal guisa ne parla e ne contrista:

68      `Ecco, a voi noto è il mio poter' ne dice
      `e quanto sopra voi l'imperio ho pieno.
      Pende dal mio voler ch'altri infelice
      perda in prigione eterna il ciel sereno,
      altri divenga augello, altri radice
      faccia e germogli nel terrestre seno,
      o che s'induri in scelce, o in molle fonte
      si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.

69      Ben potete schivar l'aspro mio sdegno,
      quando servire al mio piacer v'aggrade:
      farvi pagani, e per lo nostro regno
      contra l'empio Buglion mover le spade.'
      Ricusàr tutti ed aborrír l'indegno
      patto; solo a Rambaldo il persuade.
      Noi (ché non val difesa) entro una buca
      di lacci avolse ove non è che luca.

70      Poi nel castello istesso a sorte venne
      Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero.
      Ma poco tempo in carcere ci tenne
      la falsa maga; e (s'io n'intesi il vero)
      di seco trarne da quell'empia ottenne
      del signor di Damasco un messaggiero,
      ch'al re d'Egitto in don fra cento armati
      ne conduceva inermi e incatenati.

71      Cosí ce n'andavamo; e come l'alta
      providenza del Cielo ordina e move,
      il buon Rinaldo, il qual piú sempre essalta
      la gloria sua con opre eccelse e nove,
      in noi s'aviene, e i cavalieri assalta
      nostri custodi e fa l'usate prove:
      gli uccide e vince, e di quell'arme loro
      fa noi vestir che nostre in prima foro.

72      Io 'l vidi, e 'l vider questi; e da lui porta
      ci fu la destra, e fu sua voce udita.
      Falso è il romor che qui risuona e porta
      sí rea novella, e salva è la sua vita;
      ed oggi è il terzo dí che con la scorta
      d'un peregrin fece da noi partita
      per girne in Antiochia, e pria depose
      l'arme che rotte aveva e sanguinose."

73      Cosí parlava, e l'Eremita intanto
      volgeva al cielo l'una e l'altra luce.
      Non un color, non serba un volto: oh quanto
      piú sacro e venerabile or riluce!
      Pieno di Dio, rapto dal zelo, a canto
      a l'angeliche menti ei si conduce;
      gli si svela il futuro, e ne l'eterna
      serie de gli anni e de l'età s'interna.

74      e la bocca sciogliendo in maggior suono
      scopre le cose altrui ch'indi verranno.
      Tutti conversi a le sembianze, al tuono
      de l'insolita voce attenti stanno.
      "Vive" dice "Rinaldo, e l'altre sono
      arti e bugie di femminile inganno.
      Vive, e la vita giovanetta acerba
      a piú mature glorie il Ciel riserba.

75      Presagi sono e fanciulleschi affanni
      questi ond'or l'Asia lui conosce e noma.
      Ecco chiaro vegg'io, correndo gli anni,
      ch'egli s'oppone a l'empio Augusto e 'l doma
      e sotto l'ombra de gli argentei vanni
      l'aquila sua copre la Chiesa e Roma,
      che de la fèra avrà tolte a gli artigli;
      e ben di lui nasceran degni i figli.

76      De' figli i figli, e chi verrà da quelli,
      quinci avran chiari e memorandi essempi;
      e da' Cesari ingiusti e da' rubelli
      difenderan le mitre e i sacri tèmpi.
      Premer gli alteri e sollevar gli imbelli,
      difender gli innocenti e punir gli empi,
      fian l'arti lor: cosí verrà che vóle
      l'aquila estense oltra le vie del sole.

77      E dritto è ben che, se 'l ver mira e 'l lume,
      ministri a Pietro i folgori mortali.
      U' per Cristo si pugni, ivi le piume
      spiegar dée sempre invitte e trionfali,
      ché ciò per suo nativo alto costume
      dielle il Cielo e per leggi a lei fatali.
      Onde piace là su che in questa degna
      impresa, onde partí, chiamato vegna."

78      Qui dal soggetto vinto il saggio Piero
      stupido tace, e 'l cor ne l'alma faccia
      troppo gran cose de l'estense altero
      valor ragiona, onde tutto altro spiaccia.
      Sorge intanto la notte, e 'l velo nero
      per l'aria spiega e l'ampia terra abbraccia;
      vansene gli altri e dan le membra al sonno,
      ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno.



canto UNDICESIMO



1       Ma 'l capitan de le cristiane genti,
      vòlto avendo a l'assalto ogni pensiero,
      giva apprestando i bellici instrumenti
      quando a lui venne il solitario Piero;
      e trattolo in disparte, in tali accenti
      gli parlò venerabile e severo:
      "Tu movi, o capitan, l'armi terrene,
      ma di là non cominci onde conviene.

2       Sia dal Cielo il principio; invoca inanti
      ne le preghiere pubbliche e devote
      la milizia de gli angioli e de' santi,
      che ne impetri vittoria ella che puote.
      Preceda il clero in sacre vesti, e canti
      con pietosa armonia supplici note;
      e da voi, duci gloriosi e magni,
      pietate il vulgo apprenda e n'accompagni."

3       Cosí gli parla il rigido romito,
      e 'l buon Goffredo il saggio aviso approva:
      "Servo" risponde "di Giesú gradito,
      il tuo consiglio di seguir mi giova.
      Or mentre i duci a venir meco invito,
      tu i Pastori de' popoli ritrova,
      Guglielmo ed Ademaro, e vostra sia
      la cura de la pompa sacra e pia."

4       Nel seguente mattino il vecchio accoglie
      co' duo gran sacerdoti altri minori,
      ov'entro al vallo tra sacrate soglie
      soleansi celebrar divini onori.
      Quivi gli altri vestír candide spoglie,,
      vestír dorato ammanto i duo Pastori
      che bipartito sovra i bianchi lini
      s'affibbia al petto, e incoronaro i crini.

5       Va Piero solo inanzi e spiega al vento
      il segno riverito in Paradiso,
      e segue il coro a passo grave e lento
      in duo lunghissimi ordini diviso.
      Alternando facean doppio concento
      in supplichevol canto e in umil viso,
      e chiudendo le schiere ivano a paro
      i principi Guglielmo ed Ademaro.

6       Venia poscia il Buglion, pur come è l'uso
      di capitan senza compagno a lato;
      seguiano a coppia i duci, e non confuso
      seguiva il campo in lor difesa armato.
      Sí procedendo se n'uscia del chiuso
      de le trinciere il popolo adunato,
      né s'udian trombe o suoni altri feroci
      ma di pietate e d'umiltà sol voci.

7       Te Genitor, te Figlio eguale al Padre,
      e te che d'ambo uniti amando spiri,
      e te d'Uomo e di Dio vergine Madre
      invocano propizia a i lor desiri;
      o Duci, e voi che le fulgenti squadre
      del ciel movete in triplicati giri,
      o Divo, e te che de la diva fronte
      la monda umanità lavasti al fonte,

8      chiamano; e te che sei pietra e sostegno
      de la magion di Dio fondato e forte,
      ove ora il novo successor tuo degno
      di grazia e di perdono apre le porte,
      e gli altri messi del celeste regno
      che divulgàr la vincitrice morte,
      e quei che 'l vero a confermar seguiro,
      testimoni di sangue e di martiro;

9      quegli ancor la cui penna o la favella
      insegnata ha del Ciel la via smarrita,
      e la cara di Cristo e fida ancella
      ch'elesse il ben de la piú nobil vita;
      e le vergini chiuse in casta cella
      che Dio con alte nozze a sé marita;
      e quell'altre magnanime a i tormenti,
      sprezzatrici de' regi e de le genti.

10      Cosí cantando, il popolo devoto
      con larghi giri si dispiega e stende,
      e drizza a l'Oliveto il lento moto,
      monte che da l'olive il nome prende,
      monte per sacra fama al mondo noto,
      ch'oriental contra le mura ascende,
      e sol da quelle il parte e ne 'l discosta
      la cupa Giosafà ch'in mezzo è posta.

11      Colà s'invia l'essercito canoro,
      e ne suonan le valli ime e profonde
      e gli alti colli e le spelonche loro,
      e da ben mille parti Ecco risponde,
      e quasi par che boscareccio coro
      fra quegli antri si celi e in quelle fronde,
      sí chiaramente replicar s'udia
      or di Cristo il gran nome, or di Maria,

12      D'in su le mura ad ammirar fra tanto
      cheti si stanno e attoniti i pagani
      que' tardi avolgimenti e l'umil canto,
      e l'insolite pompe e i riti estrani.
      Poi che cessò de lo spettacol santo
      la novitate, i miseri profani
      alzàr le strida; e di bestemmie e d'onte
      muggí il torrente e la gran valle e 'l monte.

13      Ma da la casta melodia soave
      la gente di Giesú però non tace,
      né si volge a que' gridi o cura n'have
      piú che di stormo avria d'augei loquace;
      né perché strali aventino, ella pave
      che giungano a turbar la santa pace
      di sí lontano, onde a suo fin ben pote
      condur le sacre incominciate note.

14      Poscia in cima del colle ornan l'altare
      che di gran cena al sacerdote è mensa,
      e d'ambo i lati luminosa appare
      sublime lampa in lucid'oro accensa.
      Quivi altre spoglie, e pur dorate e care,
      prende Guglielmo, e pria tacito pensa,
      indi con chiaro suon la voce spiega,
      se stesso accusa e Dio ringrazia e prega.

15      Umili intorno ascoltano i primieri,
      le viste i piú lontani almen v'han fisse.
      Ma poi che celebrò gli alti misteri
      del puro sacrificio: "Itene" ei disse;
      e in fronte alzando a i popoli guerrieri
      la man sacerdotal, li benedisse.
      Allor se 'n ritornàr le squadre pie
      per le dianzi da lor calcate vie.

16      Giunti nel vallo e l'ordine disciolto,
      si rivolge Goffredo a sua magione,
      e l'accompagna stuol calcato e folto
      insino al limitar del padiglione.
      Quivi gli altri accommiata indietro vòlto,
      ma ritien seco i duci il pio Buglione,
      e li raccoglie a mensa, e vuol ch'a fronte
      di Tolosa gli sieda il vecchio conte.

17      Poi che de' cibi il natural amore
      fu in lor ripresso e l'importuna sete,
      disse a i duci il gran duce: "Al novo albore
      tutti a l'assalto voi pronti sarete:
      quel fia giorno di guerra e di sudore,
      questo sia d'apparecchio e di quiete.
      Dunque ciascun vada al riposo, e poi
      se medesmo prepari e i guerrier suoi."

18      Tolser essi congedo, e manifesto
      quinci gli araldi a suon di trombe fèro
      ch'essere a l'arme apparecchiato e presto
      dée con la nova luce ogni guerriero.
      Cosí in parte al ristoro e in parte questo
      giorno si diede a l'opre ed al pensiero,
      sin che fe' nova tregua a la fatica
      la cheta notte, del riposo amica.

19      Ancor dubbia l'aurora ed immaturo
      ne l'oriente il parto era del giorno,
      né i terreni fendea l'aratro duro,
      né fea il pastore a i prati anco ritorno;
      stava tra i rami ogni augellin securo,
      e in selva non s'udia latrato o corno,
      quando a cantar la mattutina tromba
      comincia: "A l'arme!" " A l'arme!" il ciel rimbomba.

20      "A l'arme! a l'arme! " subito ripiglia
      il grido universal di cento schiere.
      Sorge il forte Goffredo e già non piglia
      la gran corazza usata o le schiniere;
      ne veste un'altra ed un pedon somiglia
      in arme speditissime e leggiere;
      e indosso avea già l'agevol pondo,
      quando gli sovraggiunse il buon Raimondo.

21      Questi, veggendo armato in cotal modo
      il capitano, il suo pensier comprese:
      "Ov'è" gli disse "il grave usbergo e sodo?
      ov'è, signor, l'altro ferrato arnese?
      perché sei parte inerme? Io già non lodo
      che vada con sí debili difese.
      Or da tai segni in te ben argomento
      che sei di gloria ad umil mèta intento.

22      Deh! che ricerchi tu? privata palma
      di salitor di mura? Altri le saglia,
      ed esponga men degna ed util alma
      (rischio debito a lui) ne la battaglia;
      tu riprendi, signor, l'usata salma
      e di te stesso a nostro pro ti caglia.
      L'anima tua, mente del campo e vita,
      cautamente per Dio sia custodita."

23      Qui tace, ed ei risponde: "Or ti sia noto
      che quando in Chiaramonte il grande Urbano
      questa spada mi cinse, e me devoto
      fe' cavalier l'onnipotente mano,
      tacitamente a Dio promisi in voto
      non pur l'opera qui di capitano,
      ma d'impiegarvi ancor, quando che fosse,
      qual privato guerrier l'arme e le posse.

24      Dunque, poscia che fian contra i nemici
      tutte le genti mie mosse e disposte,
      e ch'a pieno adempito avrò gli uffici
      che son dovuti al principe de l'oste,
      ben è ragion (né tu, credo, il disdici)
      ch'a le mura pugnando anch'io m'accoste,
      e la fede promessa al Cielo osservi:
      egli mi custodisca e mi conservi."

25      Cosí concluse, e i cavalier francesi
      seguír l'essempio e i duo minor Buglioni;
      gli altri principi ancor men gravi arnesi
      parte vestiro e si mostràr pedoni.
      Ma i pagani fra tanto erano ascesi
      là dove a i sette gelidi Trioni
      si volge e piega a l'occidente il muro,
      che nel piú facil sito è men securo.

26      Però ch'altronde la città non teme
      de l'assalto nemico offesa alcuna,
      quivi non pur l'empio tiranno insieme
      il forte vulgo e gli assoldati aduna,
      ma chiama ancora a le fatiche estreme
      fanciulli e vecchi l'ultima fortuna;
      e van questi portando a i piú gagliardi
      calce e zolfo e bitume e sassi e dardi.

27      E di macchine e d'arme han pieno inante
      tutto quel muro a cui soggiace il piano,
      e quinci in forma d'orrido gigante
      da la cintola in su sorge il Soldano,
      quindi tra' merli il minaccioso Argante
      torreggia, e discoperto è di lontano,
      e in su la torre altissima Angolare
      sovra tutti Clorinda eccelsa appare.

28      A costei la faretra e 'l grave incarco
      de l'acute quadrella al tergo pende.
      Ella già ne le mani ha preso l'arco,
      e già lo stral v'ha su la corda e 'l tende;
      e desiosa di ferire, al varco
      la bella arciera i suoi nemici attende.
      Tal già credean la vergine di Delo
      tra l'alte nubi saettar dal cielo.

29      Scorre piú sotto il re canuto a piede
      da l'una a l'altra porta, e 'n su le mura
      ciò che prima ordinò cauto rivede
      e i difensor conforta e rassecura;
      e qui genti rinforza e là provede
      di maggior copia d'arme, e 'l tutto cura.
      Ma se ne van l'afflitte madri al tempio
      a ripregar nume bugiardo ed empio.

30      "Deh! spezza tu del predator francese
      l'asta, Signor, con la man giusta e forte;
      e lui, che tanto il tuo gran nome offese,
      abbatti e spargi sotto l'alte porte."
      Cosí dicean, né fur le voci intese
      là giú tra 'l pianto de l'eterna morte.
      Or mentre la città s'appresta e prega,
      le genti e l'arme il pio Buglion dispiega.

31      Tragge egli fuor l'essercito pedone
      con molta providenza e con bell'arte,
      e contra il muro ch'assalir dispone
      obliquamente in duo lati il comparte.
      Le baliste per dritto in mezzo pone
      e gli altri ordigni orribili di Marte,
      onde in guisa di fulmini si lancia
      vèr le merlate cime or sasso, or lancia.

32      E mette in guardia i cavalier de' fanti 
      da tergo, e manda intorno i corridori.
      Dà il segno poi de la battaglia, e tanti
      i sagittari sono e i frombatori
      e l'arme da le machine volanti,
      che scemano fra i merli i difensori.
      Altri v'è morto e 'l loco altri abbandona;
      già men folta del muro è la corona.

33      La gente franca impetuosa e ratta
      allor quanto piú puote affretta i passi;
      e parte scudo a scudo insieme adatta,
      e di quegli un coperchio al capo fassi,
      e parte sotto machine s'appiatta
      che fan riparo al grandinar de' sassi;
      ed arrivando al fosso, il cupo e 'l vano
      cercano empirne ed adeguarlo al piano.

34      Non era il fosso di palustre limo
      (ché no 'l consente il loco) o d'acqua molle,
      onde l'empieno, ancor che largo ed imo,
      le pietre e i fasci e gli arbori e le zolle.
      L'audacissimo Alcasto intanto il primo,
      scopre la testa ed una scala estolle,
      e no 'l ritien dura gragnuola o pioggia
      di fervidi bitumi, e su vi poggia.

35      Vedeasi in alto il fier elvezio asceso
      mezzo l'aereo calle aver fornito,
      segno a mille saette, e non offeso
      d'alcuna sí che fermi il corso ardito;
      quando un sasso ritondo e di gran peso,
      veloce come di bombarda uscito,
      ne l'elmo il coglie e il risospinge a basso;
      e 'l colpo vien dal lanciator circasso.

36      Non è mortal, ma grave il colpo e 'l salto
      sí ch'ei stordisce, e giace immobil pondo.
      Argante allor in suon feroce ed alto:
      "Caduto è il primo, or chi verrà secondo?
      Ché non uscite a manifesto assalto,
      appiattati guerrier, s'io non m'ascondo?
      Non gioveranvi le caverne estrane,
      ma vi morrete come belve in tane."

37      Cosí dice egli, e per suo dir non cessa
      la gente occulta, e tra i ripari cavi
      e sotto gli alti scudi unita e spessa
      le saette sostiene e i pesi gravi;
      già gli arieti e la muraglia appressa,
      machine grandi e smisurate travi,
      c'han testa di monton ferrata e dura:
      temon le porte il cozzo, e l'alte mura.

38      Gran mole intanto è di là su rivolta
      per cento mani al gran bisogno pronte,
      che sovra la testugine piú folta
      ruina, e par che vi trabocchi un monte;
      e de gli scudi l'union disciolta,
      piú d'un elmo vi frange e d'una fronte,
      e ne riman la terra sparsa e rossa
      d'arme, di sangue, di cervella e d'ossa.

39      L'assalitore allor sotto al coperto
      de le machine sue piú non ripara,
      ma da i ciechi perigli al rischio aperto
      fuori se n'esce e sua virtú dichiara.
      Altri appoggia le scale e va per l'erto,
      altri percote i fondamenti a gara.
      Ne crolla il muro, e ruinoso i fianchi
      già fesso mostra a l'impeto de' Franchi.

40      E ben cadeva a le percosse orrende,
      che doppia in lui l'espugnator montone,
      ma sin da' merli il popolo il difende
      con usata di guerra arte e ragione,
      ch'ovunque la gran trave in lui si stende
      cala fasci di lana e li frapone;
      prende in sé le percosse e fa piú lente
      la materia arrendevole e cedente.

41      Mentre con tal valor s'erano strette
      l'audaci schiere e la tenzon murale,
      curvò Clorinda sette volte, e sette
      rallentò l'arco e n'aventò lo strale;
      e quante in giú se ne volàr saette,
      tante s'insanguinaro il ferro e l'ale,
      non di sangue plebeo ma del piú degno,
      ché sprezza quell'altera ignobil segno.

42      Il primo cavalier ch'ella piagasse
      fu l'erede minor del rege inglese.
      Da' suoi ripari a pena il capo ei trasse
      che la mortal percossa in lui discese,
      e che la destra man non gli trapasse
      il guanto de l'acciar nulla contese;
      sí che inabile a l'arme ei si ritira
      fremendo, e meno di dolor che d'ira.

43      Il buon conte d'Ambuosa in ripa al fosso,
      e su la scala poi Clotareo il franco:
      quegli morí trafitto il petto e 'l dosso,
      questi da l'un passato a l'altro fianco.
      Sospingeva il monton, quando è percosso
      al signor de' Fiamminghi il braccio manco,
      sí che tra via s'allenta, e vuol poi trarne
      lo strale, e resta il ferro entro la carne.

44      A l'incauto Ademar, ch'era da lunge
      la fera pugna a riguardar rivolto,
      la fatal canna arriva e in fronte il punge.
      Stende ei la destra al loco ove l'ha colto,
      quando nova saetta ecco sorgiunge
      sovra la mano e la confige al volto;
      onde egli cade, e fa del sangue sacro
      su l'arme feminili ampio lavacro.

45      Ma non lungi da' merli a Palamede,
      mentre ardito disprezza ogni periglio
      e su per gli erti gradi indrizza il piede,
      cala il settimo ferro al destro ciglio,
      e trapassando per la cava sede
      e tra i nervi de l'occhio esce vermiglio
      diretro per la nuca; egli trabocca
      e more a' piè de l'assalita rocca.

46      Tal saetta costei. Goffredo intanto
      con novo assalto i difensori opprime.
      Avea condotto ad una porta a canto
      de le machine sue la piú sublime.
      Questa è torre di legno, e s'erge tanto
      che può del muro pareggiar le cime;
      torre che grave d'uomini ed armata,
      mobile è su le rote e vien tirata.

47      Viene aventando la volubil mole
      lancie e quadrella, e quanto può s'accosta,
      e come nave in guerra nave suole,
      tenta d'unirsi a la muraglia opposta;
      ma chi lei guarda ed impedir ciò vuole,
      l'urta la fronte e l'una e l'altra costa,
      la respinge con l'aste e le percote
      or con le pietre i merli ed or le rote.

48      Tanti di qua, tanti di là fur mossi
      e sassi e dardi ch'oscuronne il cielo.
      S'urtàr due nembi in aria, e là tornossi
      talor respinto, onde partiva, il telo.
      Come di fronde sono i rami scossi
      da la pioggia indurata in freddo gelo
      e ne caggiono i pomi anco immaturi,
      cosí cadeano i saracin da i muri,

49      però che scende in lor piú greve il danno,
      che di ferro assai meno eran guerniti.
      Parte de' vivi ancora in fuga vanno,
      de la gran mole al fulminar smarriti.
      Ma quel che già fu di Nicea tiranno
      vi resta, e fa restarvi i pochi arditi;
      e 'l fero Argante a contraporsi corre,
      presa una trave, a la nemica torre,

50      e da sé la respinge e tien lontana
      quanto l'abete è lungo e 'l braccio forte.
      Vi scende ancor la vergine sovrana,
      e de' perigli altrui si fa consorte.
      I Franchi intanto a la pendente lana
      le funi recideano e le ritorte
      con lunghe falci, onde cadendo a terra
      lasciava il muro disarmato in guerra.

51      Cosí la torre sovra, e piú di sotto
      l'impetuoso il batte aspro ariete,
      onde comincia ormai forato e rotto
      a discoprir le interne vie secrete.
      Essi non lunge il capitan condotto,
      al conquassato e tremulo parete,
      nel suo scudo maggior tutto rinchiuso
      che rade volte ha di portar in uso.

52      E quivi cauto rimirando spia,
      e scender vede Solimano a basso
      e porsi a la difesa ove s'apria
      tra le ruine il periglioso passo,
      e rimaner della sublime via
      Clorinda in guardia e 'l cavalier circasso.
      Cosí guardava, e già sentiasi il core
      tutto avampar di generoso ardore.

53      Onde rivolto dice al buon Sigiero,
      che gli portava un altro scudo e l'arco:
      "Ora mi porgi, o fedel mio scudiero,
      cotesto men gravoso e grande incarco,
      ché tenterò di trapassar primiero
      su i dirupati sassi il dubbio varco;
      e tempo è ben che qualche nobil opra
      de la nostra virtute omai si scopra."

54      Cosí mutato scudo a pena disse,
      quando a lui venne una saetta a volo,
      e ne la gamba il colse e la trafisse
      nel piú nervoso, ove è piú acuto il duolo.
      Che di tua man, Clorinda, il colpo uscisse,
      la fama il canta, e tuo l'onor n'è solo;
      se questo dí servaggio e morte schiva
      la tua gente pagana, a te s'ascriva.

55      Ma il fortissimo eroe, quasi non senta
      il mortifero duol de la ferita,
      dal cominciato corso il piè non lenta,
      e monta su i dirupi e gli altri invita.
      Pur s'avede egli poi che no 'l sostenta
      la gamba, offesa troppo ed impedita,
      e ch'inaspra agitando ivi l'ambascia,
      onde sforzato alfin l'assalto lascia.

56      E chiamando il buon Guelfo a sé con mano,
      a lui parlava: "Io me ne vo constretto:
      sostien persona tu di capitano
      e di mia lontananza empi il diffetto.
      Ma picciol'ora io vi starò lontano:
      vado e ritorno." E si partia, ciò detto;
      ed ascendendo in un leggier cavallo,
      giunger non può che non sia visto al vallo.

57      Al dipartir del capitan, si parte
      e cede il campo la fortuna franca.
      Cresce il vigor ne la contraria parte,
      sorge la speme e gli animi rinfranca;
      e l'ardimento co 'l favor di Marte
      ne' cor fedeli e l'impeto già manca:
      già corre lento ogni lor ferro al sangue,
      e de le trombe istesse il suono langue.

58      E già tra' merli a comparir non tarda
      lo stuol fugace che 'l timor caccionne,
      e mirando la vergine gagliarda,
      vero amor de la patria arma le donne.
      Correr le vedi e collocarsi in guarda
      con chiome sparse e con succinte gonne,
      e lanciar dardi e non mostrar paura
      d'esporre il petto per l'amate mura.

59      E quel ch'a i Franchi piú spavento porge,
      e 'l toglie a i difensor de la cittade,
      è che 'l possente Guelfo (e se n'accorge
      questo popol e quel) percosso cade.
      Tra mille il trova sua fortuna e scòrge
      d'un sasso il corso per lontane strade;
      e da sembiante colpo al tempo stesso
      colto è Raimondo, onde giú cade anch'esso.

60      Ed aspramente allora anco fu punto
      ne la proda del fosso Eustazio ardito.
      Né in questo a i Franchi fortunoso punto
      contra lor da' nemici è colpo uscito
      (che n'uscír molti) onde non sia disgiunto
      corpo da l'alma o non sia almen ferito.
      E in tal prosperità via piú feroce
      divenendo il circasso, alza la voce:

61      "Non è questa Antiochia, e non è questa
      la notte amica a le cristiane frodi.
      Vedete il chiaro sol, la gente desta,
      altra forma di guerra ed altri modi.
      Dunque favilla in voi nulla piú resta
      de l'amor de la preda e de le lodi,
      che sí tosto cessate e sète stanche
      per breve assalto, o Franchi no, ma Franche?"

62      Cosí ragiona, e in guisa tal s'accende
      ne le sue furie il cavaliero audace
      che quell'ampia città ch'egli difende
      non gli par campo del suo ardir capace,
      e si lancia a gran salti ove si fende
      il muro e la fessura adito face;
      ed ingombra l'uscita, e grida intanto
      a Soliman che si vedeva a canto:

63      "Soliman, ecco il loco ed ecco l'ora
      che del nostro valor giudice fia.
      Che cessi? o di che temi? or costà fora
      cerchi il pregio sovran chi piú 'l desia."
      Cosí gli disse, e l'uno e l'altro allora
      precipitosamente a prova uscia;
      l'un da furor, l'altro da onor rapito
      e stimolato dal feroce invito.

64      Giunsero inaspettati ed improvisi
      sovra i nemici, e in paragon mostràrsi;
      e da lor tanti furo uomini uccisi,
      e scudi ed elmi dissipati e sparsi,
      e scale tronche ed arieti incisi,
      che di lor parve quasi un monte farsi,
      e mescolati a le ruine alzaro,
      in vece del caduto, alto riparo.

65      La gente che pur dianzi ardí salire
      al pregio eccelso di mural corona,
      non ch'or d'entrar ne la cittate aspire,
      ma sembra a le difese anco mal buona;
      e cede al nuovo assalto, e in preda a l'ire
      de' duo guerrier le machine abbandona,
      ch'ad altra guerra ormai saran mal atte
      tanto è 'l furor che le percote e batte.

66      L'uno e l'altro pagan, come il trasporta
      l'impeto suo, già piú e piú trascorre;
      già 'l foco chiede a i cittadini, e porta
      duo pini fiammeggianti invèr la torre.
      Cotali uscir da la tartarea porta
      sogliono, e sottosopra il mondo porre,
      le ministre di Pluto empie sorelle,
      lor ceraste scotendo e lor facelle.

67      Ma l'invitto Tancredi, il qual altrove
      confortava a l'assalto i suoi latini,
      tosto che vide l'incredibil prove,
      e la gemina fiamma e i duo gran pini,
      tronca in mezzo le voci, e presto move
      a frenar il furor de' saracini;
      e tal del suo valor dà segno orrendo
      che chi vinse e fugò fugge or perdendo.

68      Cosí de la battaglia or qui lo stato
      co 'l variar de la fortuna è vòlto,
      e in questo mezzo il capitan piagato
      ne la gran tenda sua già s'è raccolto
      co 'l buon Sigier, con Baldovino a lato,
      de i mesti amici in gran concorso e folto;
      ei che s'affretta e di tirar s'affanna
      de la piaga lo stral, rompe la canna,

69      e la via piú vicina e piú spedita
      a la cura di lui vuol che si prenda,
      scoprasi ogni latebra a la ferita
      e largamente si risechi e fenda.
      "Rimandatemi in guerra, onde fornita
      non sia co 'l dí prima ch'a lei mi renda."
      Cosí dice; e premendo il lungo cerro
      d'una gran lancia, offre la gamba al ferro.

70      E già l'antico Eròtimo, che nacque
      in riva al Po, s'adopra in sua salute,
      il qual de l'erbe e de le nobil acque
      ben conosceva ogni uso, ogni virtute;
      caro a le Muse ancor, ma si compiacque
      ne la gloria minor de l'arti mute,
      sol curò tòrre a morte i corpi frali,
      e potea far i nomi anco immortali.

71      Stassi appoggiato, e con secura faccia
      freme immobile al pianto il capitano.
      Quegli in gonna succinto e da le braccia
      ripiegato il vestir, leggiero e piano
      or con l'erbe potenti in van procaccia
      trarne lo strale, or con la dotta mano;
      e con la destra il tenta e co 'l tenace
      ferro il va riprendendo, e nulla face.

72      L'arte sue non seconda ed al disegno 
      par che per nulla via fortuna arrida;
      e nel piagato eroe giunge a tal segno
      l'aspro martír che n'è quasi omicida.
      Or qui l'angiol custode, al duol indegno
      mosso di lui, colse dittamo in Ida:
      erba crinita di purpureo fiore
      c'have in giovani foglie alto valore.

73      E ben mastra natura a le montane
      capre n'insegna la virtú celata,
      qualor vengon percosse e lor rimane
      nel fianco affissa la saetta alata.
      Ouesta, benché da parti assai lontane,
      in un momento l'angelo ha recata,
      e non veduto entro le mediche onde
      de gli apprestati bagni il succo infonde,

74      e del fonte di Lidia i sacri umori
      e l'odorata panacea vi mesce.
      Ne sparge il vecchio la ferita, e fuori
      volontario per sé lo stral se 'n esce
      e si ristagna il sangue; e già i dolori
      fuggono da la gamba e 'l vigor cresce.
      Grida Eròtimo allor: "L'arte maestra
      te non risana o la mortal mia destra,

75      maggior virtú ti salva: un angiol, credo,
      medico per te fatto, è sceso in terra,
      ché di celeste mano i segni vedo:
      prendi l'arme; che tardi? e riedi in guerra."
      Avido di battaglia il pio Goffredo
      già ne l'ostro le gambe avolge e serra,
      e l'asta crolla smisurata, e imbraccia
      il già deposto scudo e l'elmo allaccia.

76      Uscí dal chiuso vallo, e si converse
      con mille dietro a la città percossa:
      sopra di polve il ciel gli si coperse,
      tremò sotto la terra al moto scossa;
      e lontano appressar le genti averse
      d'alto il miraro, e corse lor per l'ossa
      un tremor freddo e strinse il sangue in gelo.
      Egli alzò tre fiate il grido al cielo.

77      Conosce il popol suo l'altera voce
      e 'l grido eccitator de la battaglia,
      e riprendendo l'impeto veloce
      di novo ancora a la tenzon si scaglia.
      Ma già la coppia de i pagan feroce
      nel rotto accolta s'è de la muraglia,
      difendendo ostinata il varco fesso
      dal buon Tancredi e da chi vien con esso.

78      Qui disdegnoso giunge e minacciante
      chiuso ne l'arme il capitan di Francia,
      e 'n su la prima giunta al fero Argante
      l'asta ferrata fulminando lancia.
      Nessuna mural machina si vante
      d'aventar con piú forza alcuna lancia.
      Tuona per l'aria la nodosa trave,
      v'oppon lo scudo Argante e nulla pave.

79      S'apre lo scudo al frassino pungente,
      né la dura corazza anco il sostiene,
      ché rompe tutte l'arme, e finalmente
      il sangue saracino a sugger viene.
      Ma si svelle il circasso (e il duol non sente)
      da l'arme il ferro affisso e da le vene,
      e 'n Goffredo il ritorce: "A te" dicendo
      "rimando il tronco, e l'armi tue ti rendo."

80      L'asta, ch'offesa or porta ed or vendetta, 
      per lo noto sentier vola e rivola,
      ma già colui non fère ove è diretta,
      ch'egli si spiega e 'l capo al colpo invola;
      coglie il fedel Sigiero, il qual ricetta
      profondamente il ferro entro la gola, 
      né gli rincresce, del suo caro duce
      morendo in vece, abbandonar la luce.

81      Quasi in quel punto Soliman percote
      con una scelce il cavalier normando;
      e questi al colpo si contorce e scote
      e cade in giú come paleo rotando.
      Or piú Goffredo sostener non pote
      l'ira di tante offese, e impugna il brando,
      e sovra la confusa alta ruina
      ascende, e move omai guerra vicina.

82      E ben ei vi facea mirabil cose,
      e contrasti seguiano aspri e mortali,
      ma fuor uscí la notte e 'l mondo ascose
      sotto il caliginoso orror de l'ali;
      e l'ombre sue pacifiche interpose
      fra tante ire de' miseri mortali,
      sí che cessò Goffredo e fe' ritorno.
      Cotal fine ebbe il sanguinoso giorno.

83      Ma pria che 'l pio Buglione il campo ceda,
      fa indietro riportar gli egri e i languenti,
      e già non lascia a' suoi nemici in preda
      l'avanzo de' suoi bellici tormenti;
      pur salva la gran torre avien che rieda,
      primo terror de le nemiche genti,
      come che sia da l'orrida tempesta
      sdruscita anch'essa in alcun loco e pesta.

84      Da' gran perigli uscita ella se 'n viene
      giungendo a loco omai di sicurezza.
      Ma qual nave talor ch'a vele piene
      corre il mar procelloso e l'onde sprezza,
      poscia in vista del porto o su l'arene
      o su i fallaci scogli un fianco spezza;
      o qual destrier passa le dubbie strade
      e presso al dolce albergo incespa e cade;

85      tale inciampa la torre, e tal da quella
      parte che volse a l'impeto de' sassi
      frange due rote debili, sí ch'ella
      ruinosa pendendo arresta i passi.
      Ma le suppone appoggi e la puntella
      lo stuol che la conduce e seco stassi,
      insin che i pronti fabri intorno vanno
      saldando in lei d'ogni sua piaga il danno,

86      Cosí Goffredo impone, il qual desia
      che si racconci inanzi al novo sole,
      ed occupando questa e quella via
      dispon le guardie intorno a l'alta mole;
      ma 'l suon ne la città chiaro s'udia
      di fabrili instrumenti e di parole,
      e mille si vedean fiaccole accese,
      onde seppesi il tutto o si comprese.



canto DODICESIMO



1       Era la notte, e non prendean ristoro
      co 'l sonno ancor le faticose genti:
      ma qui vegghiando nel fabril lavoro
      stavano i Franchi a la custodia intenti,
      e là i pagani le difese loro
      gian rinforzando tremule e cadenti
      e reintegrando le già rotte mura,
      e de' feriti era comun la cura.

2       Curate al fin le piaghe, e già fornita
      de l'opere notturne era qualcuna;
      e rallentando l'altre, al sonno invita
      l'ombra omai fatta piú tacita e bruna.
      Pur non accheta la guerriera ardita
      l'alma d'onor famelica e digiuna,
      e sollecita l'opre ove altri cessa.
      Va seco Argante, e dice ella a se stessa:

3       "Ben oggi il re de' Turchi e 'l buon Argante
      fèr meraviglie inusitate e strane,
      ché soli uscír fra tante schiere e tante
      e vi spezzàr le machine cristiane.
      Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)
      d'alto rinchiusa oprai l'arme lontane,
      sagittaria, no 'l nego, assai felice.
      Dunque sol tanto a donna e piú non lice?

4       Quanto me' fòra in monte od in foresta
      a le fère aventar dardi e quadrella,
      ch'ove il maschio valor si manifesta
      mostrarmi qui tra cavalier donzella!
      Ché non riprendo la feminea vesta,
      s'io ne son degna e non mi chiudo in cella?"
      Cosí parla tra sé; pensa e risolve
      al fin gran cose ed al guerrier si volve:

5       "Buona pezza è, signor, che in sé raggira
      un non so che d'insolito e d'audace
      la mia mente inquieta: o Dio l'inspira,
      o l'uom del suo voler suo Dio si face.
      Fuor del vallo nemico accesi mira
      i lumi; io là n'andrò con ferro e face
      e la torre arderò: vogl'io che questo
      effetto segua, il Ciel poi curi il resto.

6       Ma s'egli averrà pur che mia ventura
      nel mio ritorno mi rinchiuda il passo,
      d'uom che 'n amor m'è padre a te la cura
      e de le care mie donzelle io lasso.
      Tu ne l'Egitto rimandar procura
      le donne sconsolate e 'l vecchio lasso.
      Fallo per Dio, signor, ché di pietate
      ben è degno quel sesso e quella etate."

7       Stupisce Argante, e ripercosso il petto
      da stimoli di gloria acuti sente.
      "Tu là n'andrai," rispose "e me negletto
      qui lascierai tra la vulgare gente?
      E da secura parte avrò diletto
      mirar il fumo e la favilla ardente?
      No, no; se fui ne l'arme a te consorte,
      esser vo' ne la gloria e ne la morte.

8       Ho core anch'io che morte sprezza e crede
      che ben si cambi con l'onor la vita."
      "Ben ne fèsti" diss'ella "eterna fede
      con quella tua sí generosa uscita.
      Pure io femina sono, e nulla riede
      mia morte in danno a la città smarrita;
      ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augúri),
      or chi sarà che piú difenda i muri?"

9       Replicò il cavaliero: "Indarno adduci
      al mio fermo voler fallaci scuse.
      Seguirò l'orme tue, se mi conduci;
      ma le precorrerò, se mi ricuse."
      Concordi al re ne vanno, il qual fra i duci
      e fra i piú saggi suoi gli accolse e chiuse.
      Incominciò Clorinda: "O sire, attendi
      a ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.

10      Argante qui (né sarà vano il vanto)
      quella macchina eccelsa arder promette.
      Io sarò seco, ed aspettiam sol tanto
      che stanchezza maggiore il sonno allette."
      Sollevò il re le palme, e un lieto pianto
      giú per le crespe guancie a lui cadette;
      e: "Lodato sia tu," disse "che a i servi
      tuoi volgi gli occhi e 'l regno anco mi servi.

11      Né già sí tosto caderà, se tali
      animi forti in sua difesa or sono.
      Ma qual poss'io, coppia onorata, eguali
      dar a i meriti vostri o laude o dono?
      Laudi la fama voi con immortali
      voci di gloria, e 'l mondo empia del suono.
      Premio v'è l'opra stessa, e premio in parte
      vi fia del regno mio non poca parte."

12      Sí parla il re canuto, e si ristringe
      or questa or quel teneramente al seno.
      Il Soldan, ch'è presente e non infinge
      la generosa invidia onde egli è pieno,
      disse: "Né questa spada in van si cinge;
      verravvi a paro o poco dietro almeno."
      "Ah!" rispose Clorinda "andremo a questa
      impresa tutti? e se tu vien, chi resta?"

13      Cosí gli disse, e con rifiuto altero
      già s'apprestava a ricusarlo Argante;
      ma 'l re il prevenne, e ragionò primiero
      a Soliman con placido sembiante:
      "Ben sempre tu, magnanimo guerriero,
      ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
      cui nulla faccia di periglio unquanco
      sgomentò, né mai fosti in guerra stanco.

14      E so che fuora andando opre faresti
      degne di te; ma sconvenevol parmi
      che tutti usciate, e dentro alcun non resti
      di voi che sète i piú famosi in armi.
      Né men consentirei ch'andasser questi
      (ché degno è il sangue lor che si risparmi),
      s'o men util tal opra o mi paresse
      che fornita per altri esser potesse.

15      Ma poi che la gran torre in sua difesa
      d'ogni intorno le guardie ha cosí folte
      che da poche mie genti esser offesa
      non pote, e inopportuno è uscir con molte,
      la coppia che s'offerse a l'alta impresa,
      e 'n simil rischio si trovò piú volte,
      vada felice pur, ch'ella è ben tale
      che sola piú che mille insieme vale.

16      Tu, come al regio onor piú si conviene,
      con gli altri, prego, in su le porte attendi;
      e quando poi (ché n'ho secura spene)
      ritornino essi e desti abbian gli incendi,
      se stuol nemico seguitando viene,
      lui risospingi e lor salva e difendi."
      Cosí l'un re diceva, e l'altro cheto
      rimaneva al suo dir, ma non già lieto.

17      Soggiunse allora Ismeno: "Attender piaccia
      a voi, ch'uscir dovete, ora piú tarda,
      sin che di varie tempre un misto i' faccia
      ch'a la machina ostil s'appigli e l'arda.
      Forse allora averrà che parte giaccia
      di quello stuol che la circonda e guarda."
      Ciò fu concluso, e in sua magion ciascuno
      aspetta il tempo al gran fatto opportuno.

18      Depon Clorinda le sue spoglie inteste
      d'argento e l'elmo adorno e l'arme altere,
      e senza piuma o fregio altre ne veste
      (infausto annunzio!) ruginose e nere,
      però che stima agevolmente in queste
      occulta andar fra le nemiche schiere.
      È quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla
      la nudrí da le fasce e da la culla,

19      e per l'orme di lei l'antico fianco
      d'ogni intorno traendo, or la seguia.
      Vede costui l'arme cangiate, ed anco
      del gran rischio s'accorge ove ella gía,
      e se n'affligge, e per lo crin che bianco
      in lei servendo ha fatto e per la pia
      memoria de' suo' uffici instando prega
      che da l'impresa cessi; ed ella il nega.

20      Onde ei le disse alfin: "Poi che ritrosa
      sí la tua mente nel suo mal s'indura
      che né la stanca età, né la pietosa
      voglia, né i preghi miei, né il pianto cura,
      ti spiegherò piú oltre, e saprai cosa
      di tua condizion che t'era oscura;
      poi tuo desir ti guidi o mio consiglio."
      Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio.

21      "Resse già l'Etiopia, e forse regge
      Senapo ancor con fortunato impero,
      il qual del figlio di Maria la legge
      osserva, e l'osserva anco il popol nero.
      Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge
      d'ancelle avolto in feminil mestiero,
      ministro fatto de la regia moglie
      che bruna è sí, ma il bruno il bel non toglie.

22      N'arde il marito, e de l'amore al foco
      ben de la gelosia s'agguaglia il gelo.
      Si va in guisa avanzando a poco a poco
      nel tormentoso petto il folle zelo
      che da ogn'uom la nasconde, e in chiuso loco
      vorria celarla a i tanti occhi del cielo.
      Ella, saggia ed umil, di ciò che piace
      al suo signor fa suo diletto e pace.

23      D'una pietosa istoria e di devote
      figure la sua stanza era dipinta.
      Vergine, bianca il bel volto e le gote
      vermiglia, è quivi presso un drago avinta.
      Con l'asta il mostro un cavalier percote:
      giace la fèra nel suo sangue estinta.
      Quivi sovente ella s'atterra, e spiega
      le sue tacite colpe e piange e prega.

24      Ingravida fra tanto, ed espon fuori
      (e tu fosti colei) candida figlia.
      Si turba; e de gli insoliti colori,
      quasi d'un novo mostro, ha meraviglia.
      Ma perché il re conosce e i suoi furori,
      celargli il parto alfin si riconsiglia,
      ch'egli avria dal candor che in te si vede
      argomentato in lei non bianca fede.

25      Ed in tua vece una fanciulla nera
      pensa mostrargli, poco inanzi nata.
      E perché fu la torre, ove chius'era,
      da le donne e da me solo abitata,
      a me, che le fui servo e con sincera
      mente l'amai, ti diè non battezzata;
      né già poteva allor battesmo darti,
      ché l'uso no 'l sostien di quelle parti.

26      Piangendo a me ti porse, e mi commise
      ch'io lontana a nudrir ti conducessi.
      Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
      lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi?
      Bagnò i baci di pianto, e fur divise
      le sue querele da i singulti spessi.
      Levò alfin gli occhi, e disse: "O Dio, che scerni
      l'opre piú occulte, e nel mio cor t'interni,

27      s'immaculato è questo cor, s'intatte
      son queste membra e 'l marital mio letto,
      per me non prego, che mille altre ho fatte
      malvagità: son vile al tuo cospetto;
      salva il parto innocente, al qual il latte
      nega la madre del materno petto.
      Viva, e sol d'onestate a me somigli;
      l'essempio di fortuna altronde pigli.

28      Tu, celeste guerrier, che la donzella
      togliesti del serpente a gli empi morsi,
      s'accesi ne' tuo' altari umil facella,
      s'auro o incenso odorato unqua ti porsi,
      tu per lei prega, sí che fida ancella
      possa in ogni fortuna a te raccòrsi."
      Qui tacque; e 'l cor le si rinchiuse e strinse,
      e di pallida morte si dipinse.

29      Io piangendo ti presi, e in breve cesta
      fuor ti portai, tra fiori e frondi ascosa;
      ti celai da ciascun, che né di questa
      diedi sospizion né d'altra cosa.
      Me n'andai sconosciuto; e per foresta
      caminando di piante orride ombrosa,
      vidi una tigre, che minaccie ed ire
      avea ne gli occhi, incontr'a me venire.

30      Sovra un arbore i' salsi e te su l'erba
      lasciai, tanta paura il cor mi prese.
      Giunse l'orribil fèra, e la superba
      testa volgendo, in te lo sguardo intese.
      Mansuefece e raddolcio l'acerba
      vista con atto placido e cortese;
      lenta poi s'avicina e ti fa vezzi
      con la lingua, e tu ridi e l'accarezzi;

31      ed ischerzando seco, al fero muso
      la pargoletta man secura stendi.
      Ti porge ella le mamme e, come è l'uso
      di nutrice, s'adatta, e tu le prendi.
      Intanto io miro timido e confuso,
      come uom faria novi prodigi orrendi.
      Poi che sazia ti vede omai la belva
      del suo latte, ella parte e si rinselva;

32      ed io giú scendo e ti ricolgo, e torno
      là 've prima fur vòlti i passi miei,
      e preso in picciol borgo alfin soggiorno,
      celatamente ivi nutrir ti fei.
      Vi stetti insin che 'l sol correndo intorno
      portò a i mortali e diece mesi e sei.
      Tu con lingua di latte anco snodavi
      voci indistinte, e incerte orme segnavi.

33      Ma sendo io colà giunto ove dechina
      l'etate omai cadente a la vecchiezza,
      ricco e sazio de l'or che la regina
      nel partir diemmi con regale ampiezza,
      da quella vita errante e peregrina
      ne la patria ridurmi ebbi vaghezza,
      e tra gli antichi amici in caro loco
      viver, temprando il verno al proprio foco.

34      Partomi, e vèr l'Egitto onde son nato,
      te conducendo meco, il corso invio,
      e giungo ad un torrente, e riserrato
      quinci da i ladri son, quindi dal rio.
      Che debbo far? te, dolce peso amato,
      lasciar non voglio, e di campar desio.
      Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene
      rompendo l'onda e te l'altra sostiene.

35      Rapidissimo è il corso, e in mezzo l'onda
      in se medesma si ripiega e gira;
      ma, giunto ove piú volge e si profonda,
      in cerchio ella mi torce e giú mi tira.
      Ti lascio allor, ma t'alza e ti seconda
      l'acqua, e secondo a l'acqua il vento spira,
      e t'espon salva in su la molle arena;
      stanco, anelando, io poi vi giungo a pena.

36      Lieto ti prendo; e poi la notte, quando
      tutte in alto silenzio eran le cose,
      vidi in sogno un guerrier che minacciando
      a me su 'l volto il ferro ignudo pose.
      Imperioso disse: 'Io ti comando
      ciò che la madre sua primier t'impose:
      che battezzi l'infante; ella è diletta
      del Cielo, e la sua cura a me s'aspetta.

37      Io la guardo e difendo, io spirto diedi
      di pietate a le fère e mente a l'acque.
      Misero te s'al sogno tuo non credi,
      ch'è del Ciel messaggiero.' E qui si tacque.
      Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi
      come del giorno il primo raggio nacque;
      ma perché mia fé vera e l'ombre false
      stimai, di tuo battesmo non mi calse,

38      né de i preghi materni; onde nudrita
      pagana fosti, e 'l vero a te celai.
      Crescesti, e in arme valorosa e ardita
      vincesti il sesso e la natura assai:
      fama e terre acquistasti, e qual tua vita
      sia stata poscia tu medesma il sai;
      e sai non men che servo insieme e padre
      io t'ho seguita fra guerriere squadre.

39      Ier poi su l'alba, a la mia mente oppressa
      d'alta quiete e simile a la morte,
      nel sonno s'offerí l'imago stessa,
      ma in piú turbata vista e in suon piú forte:
      'Ecco,' dicea 'fellon, l'ora s'appressa
      che dée cangiar Clorinda e vita e sorte:
      mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.'
      Ciò disse, e poi n'andò per l'aria a volo.

40      Or odi dunque tu che 'l Ciel minaccia
      a te, diletta mia, strani accidenti.
      Io non so; forse a lui vien che dispiaccia
      ch'altri impugni la fé de' suoi parenti.
      Forse è la vera fede. Ah! giú ti piaccia
      depor quest'arme e questi spirti ardenti."
      Qui tace e piagne; ed ella pensa e teme,
      ch'un altro simil sogno il cor le preme.

41      Rasserenando il volto, al fin gli dice:
      "Quella fé seguirò che vera or parmi,
      che tu co 'l latte già de la nutrice
      sugger mi fèsti e che vuoi dubbia or farmi;
      né per temenza lascierò, né lice
      a magnanimo cor, l'impresa e l'armi,
      non se la morte nel piú fer sembiante
      che sgomenti i mortali avessi inante."

42      Poscia il consola; e perché il tempo giunge
      ch'ella deve ad effetto il vanto porre,
      parte e con quel guerrier si ricongiunge
      che si vuol seco al gran periglio esporre.
      Con lor s'aduna Ismeno, e instiga e punge
      quella virtú che per se stessa corre;
      e lor porge di zolfo e di bitumi
      due palle, e 'n cavo rame ascosi lumi.

43      Escon notturni e piani, e per lo colle
      uniti vanno a passo lungo e spesso,
      tanto che a quella parte ove s'estolle
      la machina nemica omai son presso.
      Lor s'infiamman gli spirti, e 'l cor ne bolle
      né può tutto capir dentro se stesso:
      gli invita al foco, al sangue, un fero sdegno.
      Grida la guardia, e lor dimanda il segno.

44      Essi van cheti inanzi, onde la guarda
      "A l'arme! a l'arme!" in alto suon raddoppia;
      ma piú non si nasconde e non è tarda
      al corso allor la generosa coppia.
      In quel modo che fulmine o bombarda
      co 'l lampeggiar tuona in un punto e scoppia,
      movere ed arrivar, ferir lo stuolo,
      aprirlo e penetrar, fu un punto solo.

45      E forza è pur che fra mill'arme e mille
      percosse il lor disegno al fin riesca.
      Scopriro i chiusi lumi, e le faville
      s'appreser tosto a l'accensibil esca,
      ch'a i legni poi l'avolse e compartille.
      Chi può dir come serpa e come cresca
      già da piú lati il foco? e come folto
      turbi il fumo a le stelle il puro volto?

46      Vedi globi di fiamme oscure e miste
      fra le rote del fumo in ciel girarsi.
      Il vento soffia, e vigor fa ch'acquiste
      l'incendio e in un raccolga i fochi sparsi.
      Fère il gran lume con terror le viste
      de' Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
      La mole immensa, e sí temuta in guerra,
      cade, e breve ora opre sí lunghe atterra.

47      Due squadre de' cristiani intanto al loco
      dove sorge l'incendio accorron pronte.
      Minaccia Argante: "Io spegnerò quel foco
      co 'l vostro sangue", e volge lor la fronte.
      Pur ristretto a Clorinda, a poco a poco
      cede, e raccoglie i passi a sommo il monte.
      Cresce piú che torrente a lunga pioggia
      la turba, e li rincalza e con lor poggia.

48      Aperta è l'Aurea porta, e quivi tratto 
      è il re, ch'armato il popol suo circonda,
      per raccòrre i guerrier da sí gran fatto,
      quando al tornar fortuna abbian seconda.
      Saltano i due su 'l limitare, e ratto
      diretro ad essi il franco stuol v'inonda,
      ma l'urta e scaccia Solimano; e chiusa
      è poi la porta, e sol Clorinda esclusa.

49      Sola esclusa ne fu perché in quell'ora
      ch'altri serrò le porte ella si mosse,
      e corse ardente e incrudelita fora
      a punir Arimon che la percosse.
      Punillo; e 'l fero Argante avisto ancora
      non s'era ch'ella sí trascorsa fosse,
      ché la pugna e la calca e l'aer denso
      a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso.

50      Ma poi che intepidí la mente irata
      nel sangue del nemico e in sé rivenne,
      vide chiuse le porte e intorniata
      sé da' nemici, e morta allor si tenne.
      Pur veggendo ch'alcuno in lei non guata,
      nov'arte di salvarsi le sovenne.
      Di lor gente s'infinge, e fra gli ignoti
      cheta s'avolge; e non è chi la noti.

51      Poi, come lupo tacito s'imbosca
      dopo occulto misfatto, e si desvia,
      da la confusion, da l'aura fosca
      favorita e nascosa, ella se 'n gía.
      Solo Tancredi avien che lei conosca;
      egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
      vi giunse allor ch'essa Arimon uccise:
      vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

52      Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima
      degno a cui sua virtú si paragone.
      Va girando colei l'alpestre cima
      verso altra porta, ove d'entrar dispone.
      Segue egli impetuoso, onde assai prima
      che giunga, in guisa avien che d'armi suone,
      ch'ella si volge e grida: "O tu, che porte,
      che corri sí?" Risponde: "E guerra e morte."

53      "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto
      darlati, se la cerchi", e ferma attende.
      Non vuol Tancredi, che pedon veduto
      ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
      E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto,
      ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende;
      e vansi a ritrovar non altrimenti
      che duo tori gelosi e d'ira ardenti.

54      Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
      teatro, opre sarian sí memorande.
      Notte, che nel profondo oscuro seno
      chiudesti e ne l'oblio fatto sí grande,
      piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno
      a le future età lo spieghi e mande.
      Viva la fama loro; e tra lor gloria
      splenda del fosco tuo l'alta memoria.

55      Non schivar, non parar, non ritirarsi
      voglion costor, né qui destrezza ha parte.
      Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
      toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte.
      Odi le spade orribilmente urtarsi
      a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte;
      sempre è il piè fermo e la man sempre 'n moto,
      né scende taglio in van, né punta a vòto.

56      L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
      e la vendetta poi l'onta rinova;
      onde sempre al ferir, sempre a la fretta
      stimol novo s'aggiunge e cagion nova.
      D'or in or piú si mesce e piú ristretta
      si fa la pugna, e spada oprar non giova:
      dansi co' pomi, e infelloniti e crudi
      cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

57      Tre volte il cavalier la donna stringe
      con le robuste braccia, ed altrettante
      da que' nodi tenaci ella si scinge,
      nodi di fer nemico e non d'amante.
      Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge
      con molte piaghe; e stanco ed anelante
      e questi e quegli al fin pur si ritira,
      e dopo lungo faticar respira.

58      L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue
      su 'l pomo de la spada appoggia il peso.
      Già de l'ultima stella il raggio langue
      al primo albor ch'è in oriente acceso.
      Vede Tancredi in maggior copia il sangue
      del suo nemico, e sé non tanto offeso.
      Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
      mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!

59      Misero, di che godi? oh quanto mesti
      fiano i trionfi ed infelice il vanto!
      Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
      di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
      Cosí tacendo e rimirando, questi
      sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
      Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
      perché il suo nome a lui l'altro scoprisse:

60      "Nostra sventura è ben che qui s'impieghi
      tanto valor, dove silenzio il copra.
      Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
      e lode e testimon degno de l'opra,
      pregoti (se fra l'arme han loco i preghi)
      che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra,
      acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore,
      chi la mia morte o la vittoria onore."

61      Risponde la feroce: "Indarno chiedi
      quel c'ho per uso di non far palese.
      Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
      un di quei due che la gran torre accese."
      Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
      e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese
      "il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta,
      barbaro discortese, a la vendetta."

62      Torna l'ira ne' cori, e li trasporta,
      benché debili in guerra. Oh fera pugna,
      u' l'arte in bando, u' già la forza è morta,
      ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
      Oh che sanguigna e spaziosa porta
      fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna,
      ne l'arme e ne le carni! e se la vita
      non esce, sdegno tienla al petto unita.

63      Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto
      cessi, che tutto prima il volse e scosse,
      non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto
      ritien de l'onde anco agitate e grosse,
      tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto
      quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
      serbano ancor l'impeto primo, e vanno
      da quel sospinti a giunger danno a danno.

64      Ma ecco omai l'ora fatale è giunta
      che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
      Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
      che vi s'immerge e 'l sangue avido beve;
      e la veste, che d'or vago trapunta
      le mammelle stringea tenera e leve,
      l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente
      morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.

65      Segue egli la vittoria, e la trafitta
      vergine minacciando incalza e preme.
      Ella, mentre cadea, la voce afflitta
      movendo, disse le parole estreme;
      parole ch'a lei novo un spirto ditta,
      spirto di fé, di carità, di speme:
      virtú ch'or Dio le infonde, e se rubella
      in vita fu, la vuole in morte ancella.

66      "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
      tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
      a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona
      battesmo a me ch'ogni mia colpa lave."
      In queste voci languide risuona
      un non so che di flebile e soave
      ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
      e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

67      Poco quindi lontan nel sen del monte
      scaturia mormorando un picciol rio.
      Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte,
      e tornò mesto al grande ufficio e pio.
      Tremar sentí la man, mentre la fronte
      non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
      La vide, la conobbe, e restò senza
      e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

68      Non morí già, ché sue virtuti accolse
      tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
      e premendo il suo affanno a dar si volse
      vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
      Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse,
      colei di gioia trasmutossi, e rise;
      e in atto di morir lieto e vivace,
      dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace."

69      D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
      come a' gigli sarian miste viole,
      e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
      sembra per la pietate il cielo e 'l sole;
      e la man nuda e fredda alzando verso
      il cavaliero in vece di parole
      gli dà pegno di pace. In questa forma
      passa la bella donna, e par che dorma.

70      Come l'alma gentile uscita ei vede,
      rallenta quel vigor ch'avea raccolto;
      e l'imperio di sé libero cede
      al duol già fatto impetuoso e stolto,
      ch'al cor si stringe e, chiusa in breve sede
      la vita, empie di morte i sensi e 'l volto.
      Già simile a l'estinto il vivo langue
      al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.

71      E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
      spezzando a forza il suo ritegno frale,
      la bella anima sciolta al fin seguiva,
      che poco inanzi a lei spiegava l'ale;
      ma quivi stuol de' Franchi a caso arriva,
      cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale,
      e con la donna il cavalier ne porta,
      in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta.

72      Però che 'l duce loro ancor discosto
      conosce a l'arme il principe cristiano,
      onde v'accorre, e poi ravisa tosto
      la vaga estinta, e duolsi al caso strano.
      E già lasciar non volle a i lupi esposto
      il bel corpo che stima ancor pagano,
      ma sovra l'altrui braccia ambi li pone,
      e ne vien di Tancredi al padiglione.

73      A fatto ancor nel piano e lento moto
      non si risente il cavalier ferito;
      pur fievolmente geme, e quinci è noto
      che 'l suo corso vital non è fornito.
      Ma l'altro corpo tacito ed immoto
      dimostra ben che n'è lo spirto uscito.
      Cosí portati, è l'uno e l'altro appresso;
      ma in differente stanza al fine è messo.

74      I pietosi scudier già sono intorno
      con vari uffici al cavalier giacente,
      e già se 'n riede a i languidi occhi il giorno,
      e le mediche mani e i detti ei sente;
      ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno,
      non s'assecura attonita la mente.
      Stupido intorno ei guarda, e i servi e 'l loco
      al fin conosce; e dice afflitto e fioco:

75      "Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
      rai miro ancor di questo infausto die?
      Dí testimon de' miei misfatti ascosi,
      che rimprovera a me le colpe mie!
      Ahi! man timida e lenta, or ché non osi,
      tu che sai tutte del ferir le vie,
      tu, ministra di morte empia ed infame,
      di questa vita rea troncar lo stame?

76      Passa pur questo petto, e feri scempi
      co 'l ferro tuo crudel fa' del mio core;
      ma forse, usata a' fatti atroci ed empi,
      stimi pietà dar morte al mio dolore.
      Dunque i' vivrò tra memorandi essempi
      misero mostro d'infelice amore:
      misero mostro, a cui sol pena è degna
      de l'immensa impietà la vita indegna.

77      Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,
      mie giuste furie, forsennato, errante;
      paventarò l'ombre solinghe e scure
      che 'l primo error mi recheranno inante,
      e del sol che scoprí le mie sventure,
      a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
      Temerò me medesmo; e da me stesso
      sempre fuggendo, avrò me sempre appresso.

78      Ma dove, oh lasso me!, dove restaro
      le reliquie del corpo e bello e casto?
      Ciò ch'in lui sano i miei furor lasciaro,
      dal furor de le fère è forse guasto.
      Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
      troppo e pur troppo prezioso pasto!
      ahi sfortunato! in cui l'ombre e le selve
      irritaron me prima e poi le belve.

79      Io pur verrò là dove sète; e voi
      meco avrò, s'anco sète, amate spoglie.
      Ma s'egli avien che i vaghi membri suoi
      stati sian cibo di ferine voglie,
      vuo' che la bocca stessa anco me ingoi,
      e 'l ventre chiuda me che lor raccoglie:
      onorata per me tomba e felice,
      ovunque sia, s'esser con lor mi lice."

80      Cosí parla quel misero, e gli è detto 
      ch'ivi quel corpo avean per cui si dole:
      rischiarar parve il tenebroso aspetto,
      qual le nube un balen che passe e vóle;
      e da i riposi sollevò del letto
      l'inferma de le membra e tarda mole;
      e traendo a gran pena il fianco lasso,
      colà rivolse vacillando il passo.

81      Ma come giunse, e vide in quel bel seno,
      opera di sua man, l'empia ferita,
      e quasi un ciel notturno anco sereno
      senza splendor la faccia scolorita,
      tremò cosí che ne cadea, se meno
      era vicina la fedele aita.
      Poi disse: "Oh viso che poi far la morte
      dolce, ma raddolcir non puoi mia sorte!

82      Oh bella destra che 'l soave pegno
      d'amicizia e di pace a me porgesti!
      quali or, lasso!, vi trovo? e qual ne vegno?
      E voi, leggiadre membra, or non son questi
      del mio ferino e scelerato sdegno
      vestigi miserabili e funesti?
      Oh di par con la man luci spietate:
      essa le piaghe fe', voi le mirate.

83      Asciutte le mirate? or corra, dove
      nega d'andare il pianto, il sangue mio."
      Qui tronca le parole, e come il move
      suo disperato di morir desio,
      squarcia le fasce e le ferite, e piove
      da le sue piaghe essacerbate un rio;
      e s'uccidea, ma quella doglia acerba,
      co 'l trarlo di se stesso, in vita il serba.

84      Posto su 'l letto, e l'anima fugace
      fu richiamata a gli odiosi uffici.
      Ma la garrula fama omai non tace
      l'aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
      Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
      turba v'accorre de' piú degni amici.
      Ma né grave ammonir, né pregar dolce
      l'ostinato de l'alma affanno molce.

85      Qual in membro gentil piaga mortale
      tocca s'inaspra e in lei cresce il dolore,
      tal da i dolci conforti in sí gran male
      piú inacerbisce medicato il core.
      Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
      come d'agnella inferma al buon pastore,
      con parole gravissime ripiglia
      il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia:

86      "O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
      troppo diverso e da i princípi tuoi,
      chi sí t'assorda? e qual nuvol sí spesso
      di cecità fa che veder non puoi?
      Questa sciagura tua del Cielo è un messo;
      non vedi lui? non odi i detti suoi?
      che ti sgrida, e richiama a la smarrita
      strada che pria segnasti e te l'addita?

87      A gli atti del primiero ufficio degno
      di cavalier di Cristo ei ti rappella,
      che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
      drudo d'una fanciuila a Dio rubella.
      Seconda aversità, pietoso sdegno
      con leve sferza di là su flagella
      tua folle colpa, e fa di tua salute
      te medesmo ministro; e tu 'l rifiute?

88      Rifiuti dunque, ahi sconoscente!, il dono
      del Ciel salubre e 'ncontra lui t'adiri?
      Misero, dove corri in abbandono
      a i tuoi sfrenati e rapidi martíri?
      Sei giunto, e pendi già cadente e prono
      su 'l precipizio eterno; e tu no 'l miri?
      Miralo, prego, e te raccogli, e frena
      quel dolor ch'a morir doppio ti mena."

89      Tace, e in colui de l'un morir la tema
      poté de l'altro intepidir la voglia.
      Nel cor dà loco a que' conforti, e scema
      l'impeto interno de l'interna doglia,
      ma non cosí che ad or ad or non gema
      e che la lingua a lamentar non scioglia,
      ora seco parlando, or con la sciolta
      anima che dal Ciel forse l'ascolta.

90      Lei nel partir, lei nel tornar del sole
      chiama con voce stanca, e prega e plora,
      come usignuol cui 'l villan duro invole
      dal nido i figli non pennuti ancora,
      che in miserabil canto afflitte e sole
      piange le notti, e n'empie i boschi e l'òra.
      Al fin co 'l novo dí rinchiude alquanto
      i lumi, e 'l sonno in lor serpe fra 'l pianto.

91      Ed ecco in sogno di stellata veste
      cinta gli appar la sospirata amica:
      bella assai piú, ma lo splendor celeste
      orna e non toglie la notizia antica;
      e con dolce atto di pietà le meste
      luci par che gli asciughi, e cosí dica:
      "Mira come son bella e come lieta,
      fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta.

92      Tale i' son, tua mercé: tu me da i vivi
      del mortal mondo, per error, togliesti;
      tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi,
      per pietà, di salir degna mi fèsti.
      Quivi io beata amando godo, e quivi
      spero che per te loco anco s'appresti,
      ove al gran Sole e ne l'eterno die
      vagheggiarai le sue bellezze e mie.

93      Se tu medesmo non t'invidii il Cielo
      e non travii co 'l vaneggiar de' sensi,
      vivi e sappi ch'io t'amo, e non te 'l celo,
      quanto piú creatura amar conviensi."
      Cosí dicendo, fiammeggiò di zelo
      per gli occhi, fuor del mortal uso accensi;
      poi nel profondo de' suoi rai si chiuse
      e sparve, e novo in lui conforto infuse.

94      Consolato ei si desta e si rimette
      de' medicanti a la discreta aita,
      e intanto sepellir fa le dilette
      membra ch'informò già la nobil vita.
      E se non fu di ricche pietre elette
      la tomba e da man dedala scolpita,
      fu scelto almeno il sasso, e chi gli diede
      figura, quanto il tempo ivi concede.

95      Quivi da faci in lungo ordine accese
      con nobil pompa accompagnar la feo,
      e le sue arme, a un nudo pin sospese,
      vi spiegò sovra in forma di trofeo.
      Ma come prima alzar le membra offese
      nel dí seguente il cavalier poteo,
      di riverenza pieno e di pietate
      visitò le sepolte ossa onorate.

96      Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivo
      dolorosa prigione il Ciel prescrisse,
      pallido, freddo, muto, e quasi privo
      di movimento, al marmo gli occhi affisse.
      Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo,
      in un languido: "oimè!" proruppe, e disse:
      "O sasso amato ed onorato tanto,
      che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto,

97      non di morte sei tu, ma di vivaci
      ceneri albergo, ove è riposto Amore;
      e ben sento io da te l'usate faci,
      men dolci sí, ma non men calde al core.
      Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci
      prendi ch'io bagno di doglioso umore;
      e dalli tu, poi ch'io non posso, almeno
      a le amate reliquie c'hai nel seno.

98      Dalli lor tu, ché se mai gli occhi gira
      l'anima bella a le sue belle spoglie,
      tua pietate e mio ardir non avrà in ira,
      ch'odio o sdegno là su non si raccoglie.
      Perdona ella il mio fallo, e sol respira
      in questa speme il cor fra tante doglie.
      Sa ch'empia è sol la mano; e non l'è noia
      che, s'amando lei vissi, amando moia.

99      Ed amando morrò: felice giorno,
      quando che sia; ma piú felice molto
      se come errando or vado a te d'intorno,
      allor sarò dentro al tuo grembo accolto.
      Faccian l'anime amiche in Ciel soggiorno,
      sia l'un cenere e l'altro in un sepolto;
      ciò che 'l viver non ebbe, abbia la morte.
      Oh se sperar ciò lice, altera sorte!"

100     Confusamente si bisbiglia intanto
      del caso reo ne la rinchiusa terra.
      Poi s'accerta e divulga, e in ogni canto
      de la città smarrita il romor erra
      misto di gridi e di femineo pianto;
      non altramente che se presa in guerra
      tutta ruini, e 'l foco e i nemici empi
      volino per le case e per li tèmpi.

101     Ma tutti gli occhi Arsete in sé rivolve,
      miserabil di gemito e d'aspetto.
      Ei come gli altri in lagrime non solve
      il duol, ché troppo è d'indurato affetto;
      ma i bianchi crini suoi d'immonda polve
      si sparge e brutta, e fiede il volto e 'l petto.
      Or mentre in lui vòlte le turbe sono,
      va in mezzo Argante e parla in cotal suono:

102     "Ben volev'io, quando primier m'accorsi
      che fuor si rimanea la donna forte,
      seguirla immantinente; e ratto corsi
      per correr seco una medesma sorte.
      Che non feci o non dissi? o quai non porsi
      preghiere al re che fèsse aprir le porte?
      Ei me pregante, e contendente invano,
      con l'imperio affrenò c'ha qui soprano,

103     Ahi! che s'io allora usciva, o dal periglio
      qui ricondotta la guerriera avrei,
      o chiusi, ov'ella il terren fe' vermiglio,
      con memorabil fine i giorni miei.
      Ma che potevo io piú? parve al consiglio
      de gli uomini altramente e de gli dèi:
      ella morí di fatal morte, ed io
      quant'or conviensi a me già non oblio.

104     Odi, Gierusalem, ciò che prometta
      Argante; odi 'l tu, Cielo; e se in ciò manco,
      fulmina su 'l mio capo: io la vendetta
      giuro di far ne l'omicida franco,
      che per la costei morte a me s'aspetta,
      né questa spada mai depor dal fianco
      insin ch'ella a Tancredi il cor non passi
      e 'l cadavero infame a i corvi lassi."

105     Cosí disse egli, e l'aure popolari
      con applauso seguír le voci estreme;
      e imaginando sol, temprò gli amari
      l'aspettata vendetta in quel che geme.
      Oh vani giuramenti! ecco contrari
      seguir tosto gli effetti a l'alta speme,
      e cader questi in tenzon pari estinto
      sotto colui ch'ei fa già preso e vinto.