Gerusalemme liberata, canti 13-14-15

POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO AL SERENISSIMO SIGNORE IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA

canto TREDICESIMO



1       Ma cadde a pena in cenere l'immensa
      machina espugnatrice de la mura,
      che 'n sé novi argomenti Ismen ripensa
      perché piú resti la città secura;
      onde a i Franchi impedir ciò che dispensa
      lor di materia il bosco egli procura,
      onde contra Sion battuta e scossa
      torre nova rifarsi indi non possa.

2       Sorge non lunge a le cristiane tende
      tra solitarie valli alta foresta,
      foltissima di piante antiche, orrende,
      che spargon d'ogni intorno ombra funesta.
      Qui, ne l'ora che 'l sol piú chiaro splende,
      è luce incerta e scolorita e mesta,
      quale in nubilo ciel dubbia si vede
      se 'l dí a la notte o s'ella a lui succede.

3       Ma quando parte il sol, qui tosto adombra
      notte, nube, caligine ed orrore
      che rassembra infernal, che gli occhi ingombra
      di cecità, ch'empie di tema il core;
      né qui gregge od armenti a' paschi, a l'ombra
      guida bifolco mai, guida pastore,
      né v'entra peregrin, se non smarrito,
      ma lunge passa e la dimostra a dito.

4       Qui s'adunan le streghe, ed il suo vago
      con ciascuna di lor notturno viene;
      vien sovra i nembi, e chi d'un fero drago,
      e chi forma d'un irco informe tiene:
      concilio infame, che fallace imago
      suol allettar di desiato bene
      a celebrar con pompe immonde e sozze
      i profani conviti e l'empie nozze.

5       Cosí credeasi, ed abitante alcuno
      dal fero bosco mai ramo non svelse;
      ma i Franchi il violàr, perch'ei sol uno
      somministrava lor machine eccelse.
      Or qui se 'n venne il mago, e l'opportuno
      alto silenzio de la notte scelse,
      de la notte che prossima successe,
      e suo cerchio formovvi e i segni impresse.

6       E scinto e nudo un piè nel cerchio accolto,
      mormorò potentissime parole.
      Girò tre volte a l'oriente il volto,
      tre volte a i regni ove dechina il sole,
      e tre scosse la verga ond'uom sepolto
      trar de la tomba e dargli il moto sòle,
      e tre co 'l piede scalzo il suol percosse;
      poi con terribil grido il parlar mosse:

7       "Udite, udite, o voi che da le stelle
      precipitàr giú i folgori tonanti:
      sí voi che le tempeste e le procelle
      movete, abitator de l'aria erranti,
      come voi che a le inique anime felle
      ministri sète de li eterni pianti;
      cittadini d'Averno, or qui v'invoco,
      e te, signor de' regni empi del foco.

8       Prendete in guardia questa selva, e queste
      piante che numerate a voi consegno.
      Come il corpo è de l'alma albergo e veste,
      cosí d'alcun di voi sia ciascun legno,
      onde il Franco ne fugga o almen s'arreste
      ne' primi colpi, e tema il vostro sdegno."
      Disse, e quelle ch'aggiunse orribil note,
      lingua, s'empia non è, ridir non pote.

9       A quel parlar le faci, onde s'adorna
      il seren de la notte, egli scolora;
      e la luna si turba e le sue corna
      di nube avolge, e non appar piú fora.
      Irato i gridi a raddoppiar ei torna:
      "Spirti invocati, or non venite ancora?
      onde tanto indugiar? forse attendete
      voci ancor piú potenti o piú secrete?

10      Per lungo disusar già non si scorda
      de l'arti crude il píú efficace aiuto;
      e so con lingua anch'io di sangue lorda
      quel nome proferir grande e temuto,
      a cui né Dite mai ritrosa o sorda
      né trascurato in ubidir fu Pluto.
      Che sí?... che sí?..." Volea piú dir, ma intanto
      conobbe ch'esseguito era lo 'ncanto.

11      Venieno innumerabili, infiniti
      spirti, parte che 'n aria alberga ed erra,
      parte di quei che son dal fondo usciti
      caliginoso e tetro de la terra;
      lenti e del gran divieto anco smarriti,
      ch'impedí loro il trattar l'arme in guerra,
      ma già venirne qui lor non si toglie
      e ne' tronchi albergare e tra le foglie.

12      Il mago, poi ch'omai nulla piú manca 
      al suo disegno, al re lieto se 'n riede:
      "Signor, lascia ogni dubbio e 'l cor rinfranca
      ch'omai secura è la regal tua sede,
      né potrà rinovar piú l'oste franca
      l'alte machine sue come ella crede."
      Cosí gli dice, e poi di parte in parte
      narra i successi de la magica arte.

13      Soggiunse appresso: "Or cosa aggiungo a queste
      fatte da me ch'a me non meno aggrada.
      Sappi che tosto nel Leon celeste
      Marte co 'l sol fia ch'ad unir si vada,
      né tempreran le fiamme lor moleste
      aure, o nembi di pioggia o di rugiada,
      ché quanto in cielo appar, tutto predice
      aridissima arsura ed infelice;

14      onde qui caldo avrem qual l'hanno a pena
      gli adusti Nasamoni o i Garamanti.
      Pur a noi fia men grave in città piena
      d'acque e d'ombre sí fresche e d'agi tanti,
      ma i Franchi in terra asciutta e non amena
      già non saranlo a tolerar bastanti;
      e pria dómi dal cielo, agevolmente
      fian poi sconfitti da l'egizia gente.

15      Tu vincerai sedendo, e la fortuna
      non cred'io che tentar piú ti convegna.
      Ma se 'l circasso alter che posa alcuna
      non vuole e, benché onesta, anco la sdegna,
      t'affretta come sòle e t'importuna,
      trova modo pur tu ch'a freno il tegna,
      ché molto non andrà che 'l Cielo amico
      a te pace darà, guerra al nemico."

16      Or questo udendo il re, ben s'assecura,
      sí che non teme le nemiche posse.
      Già riparate in parte avea le mura
      che de' montoni l'impeto percosse;
      con tutto ciò non rallentò la cura
      di ristorarle, ove sian rotte o smosse.
      Le turbe tutte, e cittadine e serve,
      s'impiegan qui: l'opra continua ferve.

17      Ma in questo mezzo il pio Buglion non vòle
      che la forte cittade in van si batta,
      se non è prima la maggior sua mole
      ed alcuna altra machina rifatta.
      E i fabri al bosco invia che porger sòle
      ad uso tal pronta materia ed atta.
      Vanno costor su l'alba a la foresta,
      ma timor novo al suo apparir gli arresta.

18      Qual semplice bambin mirar non osa
      dove insolite larve abbia presenti,
      o come pave ne la notte ombrosa,
      imaginando pur mostri e portenti,
      cosí temean, senza saper qual cosa
      siasi quella però che gli sgomenti,
      se non che 'l timor forse a i sensi finge
      maggior prodigi di Chimera o Sfinge.

19      Torna la turba, e misera e smarrita
      varia e confonde sí le cose e i detti
      ch'ella nel riferir n'è poi schernita,
      né son creduti i mostruosi effetti.
      Allor vi manda il capitano ardita
      e forte squadra di guerrieri eletti,
      perché sia scorta a l'altra e 'n esseguire
      i magisteri suoi le porga ardire.

20      Questi, appressando ove lor seggio han posto
      gli empi demoni in quel selvaggio orrore,
      non rimiràr le nere ombre sí tosto,
      che lor si scosse e tornò ghiaccio il core.
      Pur oltra ancor se 'n gian, tenendo ascosto
      sotto audaci sembianti il vil timore;
      e tanto s'avanzàr che lunge poco
      erano omai da l'incantato loco.

21      Esce allor de la selva un suon repente
      che par rimbombo di terren che treme,
      e 'l mormorar de gli Austri in lui si sente
      e 'l pianto d'onda che fra scogli geme.
      Come rugge il leon, fischia il serpente,
      come urla il lupo e come l'orso freme
      v'odi, e v'odi le trombe, e v'odi il tuono:
      tanti e sí fatti suoni esprime un suono.

22      In tutti allor s'impallidír le gote
      e la temenza a mille segni apparse,
      né disciplina tanto o ragion pote
      ch'osin di gire inanzi o di fermarse,
      ch'a l'occulta virtú che gli percote
      son le difese loro anguste e scarse.
      Fuggono al fine; e un d'essi, in cotal guisa
      scusando il fatto, il pio Buglion n'avisa:

23      "Signor, non è di noi chi piú si vante
      troncar la selva, ch'ella è sí guardata
      ch'io credo (e 'l giurerei) che in quelle piante
      abbia la reggia sua Pluton traslata.
      Ben ha tre volte e piú d'aspro diamante
      ricinto il cor chi intrepido la guata;
      né senso v'ha colui ch'udir s'arrischia
      come tonando insieme rugge e fischia."

24      Cosí costui parlava. Alcasto v'era
      fra molti che l'udian presente a sorte:
      l'uom di temerità stupida e fera,
      sprezzator de' mortali e de la morte;
      che non avria temuto orribil fèra,
      né mostro formidabile ad uom forte,
      né tremoto, né folgore, né vento,
      né s'altro ha il mondo piú di violento.

25      Crollava il capo e sorridea dicendo:
      "Dove costui non osa, io gir confido;
      io sol quel bosco di troncar intendo
      che di torbidi sogni è fatto nido.
      Già no 'l mi vieterà fantasma orrendo
      né di selva o d'augei fremito o grido,
      o pur tra quei sí spaventosi chiostri
      d'ir ne l'inferno il varco a me si mostri."

26      Cotal si vanta al capitano, e tolta
      da lui licenza il cavalier s'invia;
      e rimira la selva, e poscia ascolta
      quel che da lei novo rimbombo uscia,
      né però il piede audace indietro volta
      ma securo e sprezzante è come pria;
      e già calcato avrebbe il suol difeso,
      ma gli s'oppone (o pargli) un foco acceso.

27      Cresce il gran foco, e 'n forma d'alte mura
      stende le fiamme torbide e fumanti;
      e ne cinge quel bosco, e l'assecura
      ch'altri gli arbori suoi non tronchi e schianti.
      Le maggiori sue fiamme hanno figura
      di castelli superbi e torreggianti,
      e di tormenti bellici ha munite
      le rocche sue questa novella Dite.

28      Oh quanti appaion mostri armati in guardia
      de gli alti merli e in che terribil faccia!
      De' quai con occhi biechi altri il riguarda,
      e dibattendo l'arme altri il minaccia.
      Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda,
      qual di leon che si ritiri in caccia,
      ma pure è fuga; e pur gli scote il petto
      timor, sin a quel punto ignoto affetto.

29      Non s'avide esso allor d'aver temuto,
      ma fatto poi lontan ben se n'accorse;
      e stupor n'ebbe e sdegno, e dente acuto
      d'amaro pentimento il cor gli morse.
      E, di trista vergogna acceso e muto,
      attonito in disparte i passi torse,
      ché quella faccia alzar, già sí orgogliosa,
      ne la luce de gli uomini non osa.

30      Chiamato da Goffredo, indugia e scuse
      trova a l'indugio, e di restarsi agogna.
      Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse
      o gli ragiona in guisa d'uom che sogna.
      Diffetto e fuga il capitan concluse
      in lui da quella insolita vergogna,
      poi disse: "Or ciò che fia? forse prestigi
      son questi o di natura alti prodigi?

31      Ma s'alcun v'è cui nobil voglia accenda
      di cercar que' salvatichi soggiorni,
      vadane pure, e la ventura imprenda
      e nunzio almen piú certo a noi ritorni."
      Cosí disse egli, e la gran selva orrenda
      tentata fu ne' tre seguenti giorni
      da i piú famosi; e pur alcun non fue
      che non fuggisse a le minaccie sue.

32      Era il prence Tancredi intanto sorto
      a sepellir la sua diletta amica,
      e benché in volto sia languido e smorto
      e mal atto a portar elmo o lorica,
      nulla di men, poi che 'l bisogno ha scorto,
      ei non ricusa il rischio o la fatica,
      ché 'l cor vivace il suo vigor trasfonde
      al corpo sí che par ch'esso n'abbonde.

33      Vassene il valoroso in sé ristretto,
      e tacito e guardingo, al rischio ignoto,
      e sostien de la selva il fero aspetto
      e 'l gran romor del tuono e del tremoto;
      e nulla sbigottisce, e sol nel petto
      sente, ma tosto il seda, un picciol moto.
      Trapassa, ed ecco in quel silvestre loco
      sorge improvisa la città del foco.

34      Allor s'arretra, e dubbio alquanto resta
      fra sé dicendo: "Or qui che vaglion l'armi?
      Ne le fauci de' mostri, e 'n gola a questa
      devoratrice fiamma andrò a gettarmi?
      Non mai la vita, ove cagione onesta
      del comun pro la chieda, altri risparmi,
      ma né prodigo sia d'anima grande
      uom degno; e tale è ben chi qui la spande.

35      Pur l'oste che dirà, s'indarno i' riedo?
      qual altra selva ha di troncar speranza?
      Né intentato lasciar vorrà Goffredo
      mai questo varco. Or s'oltre alcun s'avanza,
      forse l'incendio che qui sorto i' vedo
      fia d'effetto minor che di sembianza;
      ma seguane che pote." E in questo dire,
      dentro saltovvi. Oh memorando ardire!

36      Né sotto l'arme già sentir gli parve
      caldo o fervor come di foco intenso;
      ma pur, se fosser vere fiamme o larve,
      mal poté giudicar sí tosto il senso,
      perché repente a pena tocco sparve
      quel simulacro, e giunse un nuvol denso
      che portò notte e verno; e 'l verno ancora
      e l'ombra dileguossi in picciol ora.

37      Stupido sí, ma intrepido rimane
      Tancredi; e poi che vede il tutto cheto,
      mette securo il piè ne le profane
      soglie e spia de la selva ogni secreto.
      Né piú apparenze inusitate e strane,
      né trova alcun fra via scontro o divieto,
      se non quanto per sé ritarda il bosco
      la vista e i passi inviluppato e fosco.

38      Al fine un largo spazio in forma scorge
      d'anfiteatro, e non è pianta in esso,
      salvo che nel suo mezzo altero sorge,
      quasi eccelsa piramide, un cipresso.
      Colà si drizza, e nel mirar s'accorge
      ch'era di vari segni il tronco impresso,
      simili a quei che in vece usò di scritto
      l'antico già misterioso Egitto.

39      Fra i segni ignoti alcune note ha scorte
      del sermon di Soria ch'ei ben possede:
      "O tu che dentro a i chiostri de la morte
      osasti por, guerriero audace, il piede,
      deh! se non sei crudel quanto sei forte,
      deh! non turbar questa secreta sede.
      Perdona a l'alme omai di luce prive:
      non dée guerra co' morti aver chi vive."

40      Cosí dicea quel motto. Egli era intento
      de le brevi parole a i sensi occulti:
      fremere intanto udia continuo il vento
      tra le frondi del bosco e tra i virguiti,
      e trarne un suon che flebile concento
      par d'umani sospiri e di singulti,
      e un non so che confuso instilla al core
      di pietà, di spavento e di dolore.

41      Pur tragge al fin la spada, e con gran forza
      percote l'alta pianta. Oh meraviglia!
      manda fuor sangue la recisa scorza,
      e fa la terra intorno a sé vermiglia.
      Tutto si raccapriccia, e pur rinforza
      il colpo e 'l fin vederne ei si consiglia.
      Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
      un indistinto gemito dolente,

42      che poi distinto in voci: "Ahi! troppo" disse
      "m'hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
      Tu dal corpo che meco e per me visse,
      felice albergo già, mi discacciasti:
      perché il misero tronco, a cui m'affisse
      il mio duro destino, anco mi guasti?
      Dopo la morte gli aversari tuoi,
      crudel, ne' lor sepolcri offender vuoi?

43      Clorinda fui, né sol qui spirto umano
      albergo in questa pianta rozza e dura,
      ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
      che lassi i membri a piè de l'alte mura,
      astretto è qui da novo incanto e strano,
      non so s'io dica in corpo o in sepoltura.
      Son di sensi animati i rami e i tronchi,
      e micidial sei tu, se legno tronchi."

44      Qual l'infermo talor ch'in sogno scorge
      drago o cinta di fiamme alta Chimera,
      se ben sospetta o in parte anco s'accorge
      che 'l simulacro sia non forma vera,
      pur desia di fuggir, tanto gli porge
      spavento la sembianza orrida e fera,
      tal il timido amante a pien non crede
      a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.

45      E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso
      da vari affetti che s'agghiaccia e trema,
      e nel moto potente ed improviso
      gli cade il ferro, e 'l manco è in lui la tema.
      Va fuor di sé: presente aver gli è aviso
      l'offesa donna sua che plori e gema,
      né può soffrir di rimirar quel sangue,
      né quei gemiti udir d'egro che langue.

46      Cosí quel contra morte audace core
      nulla forma turbò d'alto spavento,
      ma lui che solo è fievole in amore
      falsa imago deluse e van lamento.
      Il suo caduto ferro intanto fore
      portò del bosco impetuoso vento,
      sí che vinto partissi; e in su la strada
      ritrovò poscia e ripigliò la spada.

47      Pur non tornò, né ritentando ardio
      spiar di novo le cagioni ascose.
      E poi che giunto al sommo duce unio
      gli spirti alquanto e l'animo compose,
      incominciò: "Signor, nunzio son io
      di non credute e non credibil cose.
      Ciò che dicean de lo spettacol fero
      e del suon paventoso, è tutto vero.

48      Meraviglioso foco indi m'apparse,
      senza materia in un istante appreso,
      che sorse e dilatando un muro farse
      parve, e d'armati mostri esser difeso.
      Pur vi passai, ché né l'incendio m'arse,
      né dal ferro mi fu l'andar conteso.
      Vernò in quel punto ed annottò; fe' il giorno
      e la serenità poscia ritorno.

49      Di piú dirò: ch'a gli alberi dà vita
      spirito uman che sente e che ragiona.
      Per prova sollo; io n'ho la voce udita
      che nel cor flebilmente anco mi suona.
      Stilla sangue de' tronchi ogni ferita,
      quasi di molle carne abbian persona.
      No, no, piú non potrei (vinto mi chiamo)
      né corteccia scorzar, né sveller ramo."

50      Cosí dice egli, e 'l capitano ondeggia
      in gran tempesta di pensieri intanto.
      Pensa s'egli medesmo andar là deggia
      (che tal lo stima) a ritentar l'incanto,
      o se pur di materia altra proveggia
      lontana piú, ma non difficil tanto.
      Ma dal profondo de' pensieri suoi
      l'Eremita il rappella, e dice poi:

51      "Lascia il pensier audace: altri conviene
      che de le piante sue la selva spoglie.
      Già già la fatal nave a l'erme arene
      la prora accosta e l'auree vele accoglie;
      già, rotte l'indegnissime catene,
      l'aspettato guerrier dal lido scioglie;
      non è lontana omai l'ora prescritta
      che sia presa Sion, l'oste sconfitta."

52      Parla ei cosí, fatto di fiamma in volto,
      e risuona piú ch'uomo in sue parole.
      E 'l pio Goffredo a pensier novi è vòlto,
      ché neghittoso già cessar non vòle.
      Ma nel Cancro celeste omai raccolto
      apporta arsura inusitata il sole,
      ch'a i suoi disegni, a i suoi guerrier nemica,
      insopportabil rende ogni fatica.

53      Spenta è del cielo ogni benigna lampa;
      signoreggiano in lui crudeli stelle,
      onde piove virtú ch'informa e stampa
      l'aria d'impression maligne e felle.
      Cresce l'ardor nocivo, e sempre avampa
      piú mortalmente in queste parti e in quelle;
      a giorno reo notte piú rea succede,
      e dí peggior di lei dopo lei vede.

54      Non esce il sol giamai, ch'asperso e cinto
      di sanguigni vapori entro e d'intorno
      non mostri ne la fronte assai distinto
      mesto presagio d'infelice giorno;
      non parte mai che in rosse macchie tinto
      non minacci egual noia al suo ritorno,
      e non inaspri i già sofferti danni
      con certa tema di futuri affanni.

55      Mentre li raggi poi d'alto diffonde,
      quanto d'intorno occhio mortal si gira,
      seccarsi i fiori e impallidir le fronde,
      assetate languir l'erbe rimira,
      e fendersi la terra e scemar l'onde,
      ogni cosa del ciel soggetta a l'ira,
      e le sterili nubi in aria sparse
      in sembianza di fiamme altrui mostrarse.

56      Sembra il ciel ne l'aspetto atra fornace
      né cosa appar che gli occhi almen ristaure:
      ne le spelonche sue Zefiro tace,
      e 'n tutto è fermo il vaneggiar de l'aure;
      solo vi soffia (e par vampa di face)
      vento che move da l'arene maure,
      che, gravoso e spiacente, e seno e gote
      co' densi fiati ad or ad or percote.

57      Non ha poscia la notte ombre piú liete,
      ma del caldo del sol paiono impresse,
      e di travi di foco e di comete
      e d'altri fregi ardenti il velo intesse.
      Né pur misera terra, a la tua sete
      son da l'avara luna almen concesse
      sue rugiadose stille, e l'erbe e i fiori
      bramano indarno i lor vitali umori.

58      Da le notti inquiete il dolce sonno
      bandito fugge, e i languidi mortali
      lusingando ritrarlo a sé no 'l ponno;
      ma pur la sete è il pessimo de' mali,
      però che di Giudea l'iniquo donno
      con veneni e con succhi aspri e mortali
      piú de l'inferna Stige e d'Acheronte
      torbido fece e livido ogni fonte.

59      E il picciol Siloè, che puro e mondo
      offria cortese a i Franchi il suo tesoro,
      or di tepide linfe a pena il fondo
      arido copre e dà scarso ristoro;
      né il Po, qualor di maggio è piú profondo,
      parria soverchio a i desideri loro,
      né 'l Gange o 'l Nilo, allor che non s'appaga
      de' sette alberghi, e 'l verde Egitto allaga.

60      S'alcun giamai tra frondeggianti rive
      puro vide stagnar liquido argento,
      o giú precipitose ir acque vive
      per alpe o 'n piaggia erbosa a passo lento,
      quelle al vago desio forma e descrive
      e ministra materia al suo tormento,
      ché l'imagine lor gelida e molle
      l'asciuga e scalda e nel pensier ribolle.

61      Vedi le membra de' guerrier robuste,
      cui né camin per aspra terra preso,
      né ferrea salma onde gír sempre onuste,
      né domò ferro a la lor morte inteso,
      ch'or risolute e dal calore aduste
      giacciono a se medesme inutil peso;
      e vive ne le vene occulto foco
      che pascendo le strugge a poco a poco.

62      Langue il corsier già sí feroce, e l'erba
      che fu suo caro cibo a schifo prende,
      vacilla il piede infermo, e la superba
      cervice dianzi or giú dimessa pende;
      memoria di sue palme or piú non serba,
      né piú nobil di gloria amor l'accende:
      le vincitrici spoglie e i ricchi fregi
      par che quasi vil soma odii e dispregi.

63      Languisce il fido cane, ed ogni cura
      del caro albergo e del signor oblia,
      giace disteso ed a l'interna arsura
      sempre anelando aure novelle invia;
      ma s'altrui diede il respirar natura
      perché il caldo del cor temprato sia,
      or nulla o poco refrigerio n'have,
      sí quello onde si spira è denso e grave.

64      Cosí languia la terra, e 'n tale stato
      egri giaceansi i miseri mortali,
      e 'l buon popol fedel, già disperato
      di vittoria, temea gli ultimi mali;
      e risonar s'udia per ogni lato
      universal lamento in voci tali:
      "Che piú spera Goffredo o che piú bada,
      sí che tutto il suo campo a morte cada?"

65      Deh! con quai forze superar si crede
      gli alti ripari de' nemici nostri?
      onde machine attende? ei sol non vede
      l'ira del Cielo a tanti segni mostri?
      de la sua mente aversa a noi fan fede
      mille novi prodigi e mille mostri,
      ed arde a noi cosí che minore uopo
      di refrigerio ha l'Indo e l'Etiopo.

66      Dunque stima costui che nulla importe
      che n'andiam noi, turba negletta, indegna,
      vili ed inutil alme, a dura morte,
      perch'ei lo scettro imperial mantegna?
      Cotanto dunque fortunata sorte
      rassembra quella di colui che regna,
      che ritener si cerca avidamente
      a danno ancor de la soggetta gente?

67      Or mira d'uom c'ha il titolo di pio
      providenza pietosa, animo umano:
      la salute de' suoi porre in oblio
      per conservarsi onor dannoso e vano;
      e veggendo a noi secchi i fonti e 'l rio,
      per sé l'acque condur fa dal Giordano,
      e fra pochi sedendo a mensa lieta,
      mescolar l'onde fresche al vin di Creta."

68      Cosí i Franchi dicean; ma 'l duce greco,
      che 'l lor vessillo è di seguir già stanco,
      "Perché morir qui?" disse "e perché meco
      far che la schiera mia ne vegna manco?
      Se ne la sua follia Goffredo è cieco,
      siasi in suo danno e del suo popol franco;
      a noi che noce?" E senza tòr licenza,
      notturna fece e tacita partenza.

69      Mosse l'essempio assai, come al dí chiaro
      fu noto; e d'imitarlo alcun risolve.
      Quei che seguír Clotareo ed Ademaro
      e gli altri duci ch'or son ossa e polve,
      poi che la fede che a color giuraro
      ha disciolto colei che tutto solve,
      già trattano di fuga, e già qualcuno
      parte furtivamente a l'aer bruno.

70      Ben se l'ode Goffredo e ben se 'l vede,
      e i piú aspri rimedi avria ben pronti,
      ma gli schiva ed aborre; e con la fede
      che faria stare i fiumi e gir i monti,
      devotamente al Re del mondo chiede
      che gli apra omai de la sua grazia i fonti:
      giunge le palme, e fiammeggianti in zelo
      gli occhi rivolge e le parole al Cielo:

71      "Padre e Signor, s'al popol tuo piovesti
      già le dolci rugiade entro al deserto,
      s'a mortal mano già virtú porgesti
      romper le pietre e trar del monte aperto
      un vivo fiume, or rinnovella in questi
      gli stessi essempi; e s'ineguale è il merto,
      adempi di tua grazia i lor difetti,
      e giovi lor che tuoi guerrier sian detti."

72      Tarde non furon già queste preghiere
      che derivàr da giusto umil desio,
      ma se 'n volaro al Ciel pronte e leggiere
      come pennuti augelli inanzi a Dio.
      Le accolse il Padre eterno, ed a le schiere
      fedeli sue rivolse il guardo pio;
      e di sí gravi lor rischi e fatiche
      gli increbbe, e disse con parole amiche:

73      "Abbia sin qui sue dure e perigliose
      aversità sofferte il campo amato,
      e contra lui con armi ed arti ascose
      siasi l'inferno e siasi il mondo armato.
      Or cominci novello ordin di cose,
      e gli si volga prospero e beato.
      Piova; e ritorni il suo guerriero invitto,
      e venga a gloria sua l'oste d'Egitto."

74      Cosí dicendo, il capo mosse; e gli ampi
      cieli tremaro e i lumi erranti e i fissi,
      e tremò l'aria riverente, e i campi
      de l'oceano, e i monti e i ciechi abissi.
      Fiammeggiare a sinistra accesi lampi
      fur visti, e chiaro tuono insieme udissi.
      Accompagnan le genti il lampo e 'l tuono
      con allegro di voci ed alto suono.

75      Ecco súbite nubi, e non di terra
      già per virtú del sole in alto ascese,
      ma giú del ciel, che tutte apre e disserra
      le porte sue, veloci in giú discese:
      ecco notte improvisa il giorno serra
      ne l'ombre sue, che d'ogni intorno ha stese.
      Segue la pioggia impetuosa, e cresce
      il rio cosí che fuor del letto n'esce.

76      Come talor ne la stagione estiva,
      se dal ciel pioggia desiata scende,
      stuol d'anitre loquaci in secca riva
      con rauco mormorar lieto l'attende,
      e spiega l'ali al freddo umor, né schiva
      alcuna di bagnarsi in lui si rende,
      e là 've in maggior fondo ei si raccoglia,
      si tuffa e spegne l'assetata voglia;

77      cosí gridando, la cadente piova
      che la destra del Ciel pietosa versa,
      lieti salutan questi; a ciascun giova
      la chioma averne non che il manto aspersa:
      chi bee ne' vetri e chi ne gli elmi a prova,
      chi tien la man ne la fresca onda immersa,
      chi se ne spruzza il volto e chi le tempie,
      chi scaltro a miglior uso i vasi n'empie.

78      Né pur l'umana gente or si rallegra
      e dei suoi danni a ristorar si viene,
      ma la terra, che dianzi afflitta ed egra
      di fessure le membra avea ripiene,
      la pioggia in sé raccoglie e si rintegra,
      e la comparte a le piú interne vene,
      e largamente i nutritivi umori
      a le piante ministra, a l'erbe, a i fiori;

79      ed inferma somiglia a cui vitale
      succo le interne parti arse rinfresca,
      e disgombrando la cagion del male,
      a cui le membra sue fur cibo ed esca,
      la rinfranca e ristora e rende quale
      fu ne la sua stagion piú verde e fresca;
      tal ch'obliando i suoi passati affanni
      le ghirlande ripiglia i lieti panni.

80      Cessa la pioggia al fine e torna il sole,
      ma dolce spiega e temperato il raggio,
      pien di maschio valor, sí come sòle
      tra 'l fin d'aprile e 'l cominciar di maggio.
      Oh fidanza gentil, chi Dio ben cole,
      l'aria sgombrar d'ogni mortale oltraggio,
      cangiare a le stagioni ordine e stato,
      vincer la rabbia de le stelle e 'l fato.  

  

canto QUATTORDICESIMO


1       Usciva omai dal molle e fresco grembo
      de la gran madre sua la notte oscura,
      aure lievi portando e largo nembo
      di sua rugiada preziosa e pura;
      e scotendo del vel l'umido lembo,
      ne spargeva i fioretti e la verdura,
      e i venticelli, dibattendo l'ali,
      lusingavano il sonno de' mortali.

2       Ed essi ogni pensier che 'l dí conduce
      tuffato aveano in dolce oblio profondo.
      Ma vigilando ne l'eterna luce
      sedeva al suo governo il Re del mondo,
      e rivolgea dal Cielo al franco duce
      lo sguardo favorevole e giocondo;
      quinci a lui ne inviava un sogno cheto
      perché gli rivelasse alto decreto.

3       Non lunge a l'auree porte ond'esce il sole
      è cristallina porta in oriente,
      che per costume inanti aprir si sòle
      che si dischiuda l'uscio al dí nascente.
      Da questa escono i sogni, i quai Dio vòle
      mandar per grazia a pura e casta mente;
      da questa or quel ch'al pio Buglion discende
      l'ali dorate inverso lui distende.

4       Nulla mai vision nel sonno offerse
      altrui sí vaghe imagini o sí belle
      come ora questa a lui, la qual gli aperse
      i secreti del cielo e de le stelle;
      onde, sí come entro uno speglio, ei scerse
      ciò che là suso è veramente in elle.
      Pareagli esser traslato in un sereno
      candido e d'auree fiamme adorno e pieno;

5       e mentre ammira in quell'eccelso loco
      l'ampiezza, i moti, i lumi e l'armonia,
      ecco cinto di rai, cinto di foco,
      un cavaliero incontra a lui venia,
      e 'n suono, a lato a cui sarebbe roco
      qual piú dolce è qua giú, parlar l'udia:
      "Goffredo, non m'accogli? e non ragione
      al fido amico? or non conosci Ugone?"

6       Ed ei gli rispondea: "Quel novo aspetto
      che par d'un sol mirabilmente adorno,
      da l'antica notizia il mio intelletto
      sviat' ha sí che tardi a lui ritorno."
      Gli stendea poi con dolce amico affetto
      tre fiate le braccia al collo intorno,
      e tre fiate invan cinta l'imago
      fuggia, qual leve sogno od aer vago.

7       Sorridea quegli, e: "Non già, come credi,"
      dicea "son cinto di terrena veste:
      semplice forma e nudo spirto vedi
      qui cittadin de la città celeste.
      Questo è tempio di Dio: qui son le sedi
      de' suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste."
      "Quando ciò fia?" rispose "il mortal laccio
      sciolgasi omai, s'al restar qui m'è impaccio."

8       "Ben" replicogli Ugon "tosto raccolto
      ne la gloria sarai de' trionfanti;
      pur militando converrà che molto
      sangue e sudor là giú tu versi inanti.
      Da te prima a i pagani esser ritolto
      deve l'imperio de' paesi santi,
      e stabilirsi in lor cristiana reggia
      in cui regnare il tuo fratel poi deggia.

9       Ma perché piú lo tuo desir s'avvive
      ne l'amor di qua su, piú fiso or mira
      questi lucidi alberghi e queste vive
      fiamme che mente eterna informa e gira,
      e 'n angeliche tempre odi le dive
      sirene e 'l suon di lor celeste lira.
      China" poi disse (e gli additò la terra)
      "gli occhi a ciò che quel globo ultimo serra.

10      Quanto è vil la cagion ch'a la virtude
      umana è colà giú premio e contrasto!
      in che picciolo cerchio e fra che nude
      solitudini è stretto il vostro fasto!
      Lei come isola il mare intorno chiude,
      e lui, ch'or ocean chiamat'è or vasto,
      nulla eguale a tai nomi ha in sé di magno,
      ma è bassa palude e breve stagno."

11      Cosí l'un disse; e l'altro in giuso i lumi
      volse, quasi sdegnando, e ne sorrise,
      ché vide un punto sol, mar, terre e fiumi,
      che qui paion distinti in tante guise,
      ed ammirò che pur a l'ombre, a i fumi,
      la nostra folle umanità s'affise,
      servo imperio cercando e muta fama,
      né miri il ciel ch'a sé n'invita e chiama.

12      Onde rispose: "Poi ch'a Dio non piace
      del mio carcer terreno anco disciorme,
      prego che del camin, ch'è men fallace
      fra gli errori del mondo, or tu m'informe."
      "È" replicogli Ugon "la via verace
      questa che tieni; indi non torcer l'orme:
      sol che richiami dal lontano essiglio
      il figliuol di Bertoldo io ti consiglio.

13      Perché se l'alta Providenza elesse
      te de l'impresa sommo capitano,
      destinò insieme ch'egli esser dovesse
      de' tuoi consigli essecutor soprano.
      A te le prime parti, a lui concesse
      son le seconde: tu sei capo, ei mano
      di questo campo; e sostener sua vece
      altrui non pote, e farlo a te non lece.

14      A lui sol di troncar non fia disdetto
      il bosco c'ha gli incanti in sua difesa;
      e da lui il campo tuo che, per difetto
      di gente, inabil sembra a tanta impresa,
      e par che sia di ritirarsi astretto,
      prenderà maggior forza a nova impresa;
      e i rinforzati muri e d'Oriente
      supererà l'essercito possente."

15      Tacque, e 'l Buglion rispose: "Oh quanto grato
      fòra a me che tornasse il cavaliero!
      Voi che vedete ogni pensier celato,
      sapete s'amo lui, se dico il vero.
      Ma di', con quai proposte od in qual lato
      si deve a lui mandarne il messaggiero?
      Vuoi ch'io preghi o comandi? e come questo
      atto sarà legitimo ed onesto?"

16      Allor ripigliò l'altro: "Il Rege eterno,
      che te di tante somme grazie onora,
      vuol che da quegli onde ti diè il governo
      tu sia onorato e riverito ancora.
      Però non chieder tu (né senza scherno
      forse del sommo imperio il chieder fòra),
      ma richiesto concedi; ed al perdono
      scendi degli altrui preghi al primo suono.

17      Guelfo ti pregherà (Dio sí l'inspira)
      ch'assolva il fer garzon di quell'errore
      in cui trascose per soverchio d'ira,
      sí che al campo egli torni ed al suo onore.
      E bench'or lunge il giovene delira
      e vaneggia ne l'ozio e ne l'amore,
      non dubitar però che 'n pochi giorni
      opportuno a grand'uopo ei non ritorni;

18      ché 'l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte
      l'alta notizia de' secreti sui,
      saprà drizzare i messaggieri in parte
      ove certe novelle avran di lui,
      e sarà lor dimostro il modo e l'arte
      di liberarlo e di condurlo a vui.
      Cosí al fin tutti i tuoi compagni erranti
      ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi.

19      Or chiuderò il mio dir con una breve
      conclusion che so ch'a te fia cara:
      sarà il tuo sangue al suo commisto, e deve
      progenie uscirne gloriosa e chiara."
      Qui tacque, e sparve come fumo leve
      al vento o nebbia al sole arida e rara;
      e sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto
      di gioia e di stupor confuso affetto.

20      Apre allora le luci il pio Buglione
      e nato vede e già cresciuto il giorno,
      onde lascia i riposi, e sovrapone
      l'arme a le membra faticose intorno.
      E poco stante a lui nel padiglione
      venieno i duci al solito soggiorno,
      ove a consiglio siedono, e per uso
      ciò ch'altrove si fa quivi è concluso.

21      Quivi il buon Guelfo, che 'l novel pensiero
      infuso avea ne l'inspirata mente,
      incominciando a ragionar primiero
      disse a Goffredo: "O principe clemente,
      perdono a chieder ne vegn'io, ch'in vero
      è perdon di peccato anco recente,
      onde potrà parer per aventura 
      frettolosa dimanda ed immatura;

22      ma pensando che chiesto al pio Goffredo
      per lo forte Rinaldo è tal perdono,
      e riguardando a me che in grazia il chiedo
      che vile a fatto intercessor non sono,
      agevolmente d'impetrar mi credo
      questo ch'a tutti fia giovevol dono.
      Deh! consenti ch'ei rieda e che, in ammenda
      del fallo, in pro comune il sangue spenda.

23      E chi sarà, s'egli non è, quel forte
      ch'osi troncar le spaventose piante?
      chi girà incontra a i rischi de la morte
      con piú intrepido petto e piú costante?
      Scoter le mura ed atterrar le porte
      vedrailo, e salir solo a tutti inante.
      Rendi al tuo campo omai, rendi per Dio
      lui ch'è sua alta speme e suo desio.

24      Rendi il nipote a me, sí valoroso
      e pronto essecutor rendi a te stesso;
      né soffrir ch'egli torpa in vil riposo,
      ma rendi insieme la sua gloria ad esso.
      Segua il vessillo tuo vittorioso,
      sia testimonio a sua virtú concesso,
      faccia opre di sé degne in chiara luce
      e rimirando te maestro e duce."

25      Cosí pregava, e ciascun altro i preghi
      con favorevol fremito seguia.
      Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi
      la mente a cosa non pensata in pria,
      "Come esser può" dicea "che grazia i' neghi
      che da voi si dimanda e si desia?
      Ceda il rigore, e sia ragione e legge
      ciò che 'l consenso universale elegge.

26      Torni Rinaldo, e da qui inanzi affrene
      piú moderato l'impeto de l'ire,
      e risponda con l'opre a l'alta spene
      di lui concetta ed al comun desire.
      Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene:
      frettoloso egli fia, credo, al venire;
      tu scegli il messo, e tu l'indrizza dove
      pensi che 'l fero giovene si trove."

27      Tacque, e disse sorgendo il guerrier dano:
      "Esser io chieggio il messaggier che vada,
      né ricuso camin dubbio o lontano
      per far il don de l'onorata spada."
      Questi è di cor fortissimo e di mano,
      onde al buon Guelfo assai l'offerta aggrada:
      vuol che sia l'un de' messi e che sia l'altro
      Ubaldo, uom cauto ed aveduto e scaltro.

28      Veduti Ubaldo in giovenezza e cerchi
      vari costumi avea, vari paesi,
      peregrinando da i piú freddi cerchi
      del nostro mondo a gli Etiopi accesi,
      e come uom che virtute e senno merchi,
      le favelle, l'usanze e i riti appresi;
      poscia in matura età da Guelfo accolto
      fu tra' compagni, e caro a lui fu molto.

29      A tai messaggi l'onorata cura
      di richiamar l'alto campion si diede;
      e gli indrizzava Guelfo a quelle mura
      tra cui Boemondo ha la sua regia sede,
      ché per publica fama, e per secura
      opinion, ch'egli vi sia si crede.
      Ma 'l buon romito, che lor mal diretti
      conosce, entra fra loro e turba i detti,

30      e dice: "O cavalier, seguendo il grido
      de la fallace opinion vulgare,
      duce seguite temerario e infido
      che vi fa gire indarno e traviare.
      Or d'Ascalona nel propinquo lido
      itene, dove un fiume entra nel mare.
      Quivi fia che v'appaia uom nostro amico:
      credete a lui; ciò che diravvi, io 'l dico.

31      Ei molto per sé vede, e molto intese
      del preveduto vostro alto viaggio
      (già gran tempo ha) da me: so che cortese
      altrettanto vi fia quanto egli è saggio."
      Cosí lor disse: e piú da lui non chiese
      Carlo o l'altro che seco iva messaggio,
      ma furo ubidienti a le parole
      che spirito divin dettar gli suole.

32      Preser commiato, e sí il desio gli sprona
      che, senza indugio alcun posti in camino,
      drizzano il lor corso ad Ascalona
      dove a i lidi si frange il mar vicino.
      E non udian ancor come risuona
      il roco ed alto fremito marino,
      quando giunsero a un fiume il qual di nova
      acqua accresciuto è per novella piova,

33      sí che non può capir dentro al suo letto,
      e se 'n va piú che stral corrente e presto.
      Mentre essi stan sospesi, a lor d'aspetto
      venerabile appare un vecchio onesto,
      coronato di faggio, in lungo e schietto
      vestir che di lin candido è contesto.
      Scote questi una verga, e 'l fiume calca
      co' piedi asciutti e contra il corso il valca.

34      Sí come soglion là vicino al polo,
      s'avien che 'l verno i fiumi agghiacci e indure,
      correr su 'l Ren le villanelle a stuolo
      con lunghi strisci e sdrucciolar secure,
      cosí ei ne vien sovra l'instabil suolo
      di queste acque non gelide e non dure;
      e tosto colà giunse onde in lui fisse
      tenean le luci i due guerrieri, e disse:

35      "Amici, dura e faticosa inchiesta
      seguite; e d'uopo è ben ch'altri vi guidi,
      ché 'l cercato guerrier lunge è da questa
      terra in paesi incogniti ed infidi.
      Quanto, oh quanto de l'opra anco vi resta!
      quanti mar correrete e quanti lidi!
      E convien che si stenda il cercar vostro
      oltre i confini ancor del mondo nostro.

36      Ma non vi spiaccia entrar ne le nascose
      spelonche ov'ho la mia secreta sede,
      ch'ivi udrete da me non lievi cose
      e ciò ch'a voi saper piú si richiede."
      Disse, e ch'a lor dia loco a l'acqua impose;
      ed ella tosto si ritira e cede,
      e quinci e quindi di montagna in guisa
      curvata pende e 'n mezzo appar divisa.

37      Ei, presili per man, ne le piú interne
      profondità sotto del rio lor mena.
      Debile e incerta luce ivi si scerne,
      qual tra boschi di Cinzia ancor non piena;
      ma pur gravide d'acqua ampie caverne
      veggiono, onde tra noi sorge ogni vena
      la qual rampilli in fonte, o in fiume vago
      discorra, o stagni o si dilati in lago.

38      E veder ponno onde il Po nasca ed onde
      Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi,
      ond'esca pria la Tana, e non asconde
      gli occulti suoi princípi il Nilo quivi.
      Trovano un rio piú sotto, il qual diffonde
      vivaci zolfi e vaghi argenti e vivi;
      questi il sol poi raffina, e 'l licor molle
      stringe in candide masse e in auree zolle.

39      E miran d'ogni intorno il ricco fiume
      di care pietre il margine dipinto;
      onde, come a piú fiaccole s'allume,
      splende quel loco, e 'l fosco orror n'è vinto.
      Quivi scintilla con ceruleo lume
      il celeste zafiro ed il giacinto;
      vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo
      diamante, e lieto ride il bel smeraldo.

40      Stupidi i guerrier vanno e ne le nove
      cose sí tutto il lor pensier s'impiega
      che non fanno alcun motto. Al fin pur move
      la voce Ubaldo e la sua scorta prega:
      "Deh, padre, dinne ove noi siamo ed ove
      ci guidi, e tua condizion ne spiega,
      ch'io non so se 'l ver miri o sogno od ombra,
      cosí alto stupore il cor m'ingombra."

41      Risponde: "Sète voi nel grembo immenso
      de la terra, che tutto in sé produce;
      né già potreste penetrar nel denso
      de le viscere sue senza me duce.
      Vi scòrgo al mio palagio, il qual accenso
      tosto vedrete di mirabil luce.
      Nacqui io pagan, ma poi ne le sant'acque
      rigenerarmi a Dio per grazia piacque.

42      Né in virtú fatte son d'angioli stigi
      l'opere mie meravigliose e conte
      (tolga Dio ch'usi note o suffumigi
      per isforzar Cocito e Flegetonte),
      ma spiando me 'n vo' da' lor vestigi
      qual in sé virtú celi o l'erba o 'l fonte,
      e gli altri arcani di natura ignoti
      contemplo, e de le stelle i vari moti.

43      Però che non ognor lunge dal cielo
      tra sotterranei chiostri è la mia stanza,
      ma su 'l Libano spesso e su 'l Carmelo
      in aerea magion fo dimoranza;
      ivi spiegansi a me senza alcun velo
      Venere e Marte in ogni lor sembianza,
      e veggio come ogn'altra o presto o tardi
      roti, o benigna o minaccievol guardi.

44      E sotto i piè mi veggio or folte or rade
      le nubi, or negre ed or pinte da Iri;
      e generar le pioggie e le rugiade
      risguardo, e come il vento obliquo spiri,
      come il folgor s'infiammi e per quai strade
      tortuose in giú rispinto ei si raggiri;
      scorgo comete e fochi altri sí presso
      che soleva invaghir già di me stesso.

45      Di me medesmo fui pago cotanto
      ch'io stimai già che 'l mio saper misura
      certa fosse e infallibile di quanto
      può far l'alto Fattor de la natura;
      ma quando il vostro Piero al fiume santo
      m'asperse il crine e lavò l'alma impura,
      drizzò piú su il mio guardo, e 'l fece accorto
      ch'ei per se stesso è tenebroso e corto.

46      Conobbi allor ch'augel notturno al sole
      è nostra mente a i rai del primo Vero,
      e di me stesso risi e de le fole
      che già cotanto insuperbir mi fèro;
      ma pur seguito ancor, come egli vòle,
      le solite arti e l'uso mio primiero.
      Ben son in parte altr'uom da quel ch'io fui,
      ch'or da lui pendo e mi rivolgo a lui,

47      e in lui m'acqueto. Egli comanda e insegna,
      mastro insieme e signor sommo e sovrano,
      né già per nostro mezzo oprar disdegna
      cose degne talor de la sua mano.
      Or sarà cura mia ch'al campo vegna
      l'invitto eroe dal suo carcer lontano,
      ch'ei la m'impose; e già gran tempo aspetto
      il venir vostro, a me per lui predetto."

48      Cosí con lor parlando, al loco viene
      ov'egli ha il suo soggiorno e 'l suo riposo.
      Questo è in forma di speco e in sé contiene
      camare e sale, grande e spazioso.
      E ciò che nudre entro le ricche vene
      di piú chiaro la terra e prezioso,
      splende ivi tutto; ed ei n'è in guisa ornato
      ch'ogni suo fregio è non fatto, ma nato.

49      Non mancàr qui cento ministri e cento
      che accorti e pronti a servir gli osti foro,
      né poi in mensa magnifica d'argento
      mancàr gran vasi e di cristallo e d'oro;
      ma quando sazio il natural talento
      fu de' cibi e la sete estinta in loro:
      "Tempo è ben" disse a i cavalieri il mago
      "che 'l maggior desir vostro omai sia pago."

50      Quivi ricominciò: "L'opre e le frodi
      note in parte a voi son de l'empia Armida:
      come ella al campo venne, e con quai modi
      molti guerrier ne trasse e lor fu guida.
      Sapete ancor che di tenaci nodi
      gli avinse poscia, albergatrice infida,
      e ch'indi a Gaza gli inviò con molti
      custodi, e che tra via furon disciolti.

51      Or vi narrerò quel ch'appresso occorse,
      vera istoria da voi non anco intesa.
      Poi che la maga rea vide ritòrse
      la preda sua, già con tant'arte presa,
      ambe le mani per dolor si morse
      e fra sé disse di disdegno accesa:
      "Ah! vero unqua non fia che d'aver tanti
      miei prigion liberati egli si vanti.

52      Se gli altri sciolse, ei serva ed ei sostegna
      le pene altrui serbate e 'l lungo affanno;
      né questo anco mi basta: i' vo' che vegna
      su gli altri tutti universale il danno."
      Cosí tra sé dicendo, ordir disegna
      questo ch'or udirete iniquo inganno.
      Viensene al loco ove Rinaldo vinse
      in pugna i suoi guerrieri, e parte estinse.

53      Quivi egli avendo l'arme sue deposto,
      indosso quelle d'un pagan si pose;
      forse perché bramava irsene ascosto
      sotto insegne men note e men famose.
      Prese l'armi la maga, e in esse tosto
      un tronco busto avolse e poi l'espose;
      l'espose in ripa a un fiume ove doveva
      stuol de' Franchi arrivar, e 'l prevedeva.

54      E questo antiveder potea ben ella
      che mandar mille spie solea d'intorno,
      onde spesso del campo avea novella
      e s'altri indi partiva o fea ritorno;
      oltre che con gli spirti anco favella
      sovente, e fa con lor lungo soggiorno.
      Collocò dunque il corpo morto in parte
      molto opportuna a sua ingannevol arte.

55      Non lunge un sagacissimo valletto
      pose, di panni pastorai vestito,
      e impose lui ciò ch'esser fatto o detto
      fintamente doveva; e fu essequito.
      Questi parlò co' vostri, e di sospetto
      sparse quel seme in lor ch'indi nutrito
      fruttò risse e discordie, e quasi al fine
      sediziose guerre e cittadine.

56      Ché fu, com'ella disegnò, creduto
      per opra del Buglion Rinaldo ucciso,
      benché alfine il sospetto a torto avuto
      del ver si dileguasse al primo aviso.
      Cotal d'Armida l'artificio astuto
      primieramente fu qual io diviso.
      Or udirete ancor come seguisse
      poscia Rinaldo, e quel ch'indi avenisse.

57      Qual cauta cacciatrice, Armida aspetta
      Rinaldo al varco. Ei su l'Oronte giunge,
      ove un rio si dirama e, un'isoletta
      formando, tosto a lui si ricongiunge;
      e 'n su la riva una colonna eretta
      vede, e un picciol battello indi non lunge.
      Fisa egli tosto gli occhi al bel lavoro
      del bianco marmo e legge in lettre d'oro:

58      "O chiunque tu sia, che voglia o caso
      peregrinando adduce a queste sponde,
      meraviglie maggior l'orto o l'occaso
      non ha di ciò che l'isoletta asconde.
      Passa, se vuoi vederla." È persuaso
      tosto l'incauto a girne oltra quell'onde;
      e perché mal capace era la barca,
      gli scudieri abbandona ed ei sol varca.

59      Come è là giunto, cupido e vagante
      volge intorno lo sguardo, e nulla vede
      fuor ch'antri ed acque e fiori ed erbe e piante,
      onde quasi schernito esser si crede;
      ma pur quel loco è cosí lieto e in tante
      guise l'alletta ch'ei si ferma e siede,
      e disarma la fronte e la ristaura
      al soave spirar di placid'aura.

60      Il fiume gorgogliar fra tanto udio
      con novo suono, e là con gli occhi corse,
      e mover vide un'onda in mezzo al rio
      che in se stessa si volse e si ritorse;
      e quinci alquanto d'un crin biondo uscio,
      e quinci di donzella un volto sorse,
      e quinci il petto e le mammelle, e de la
      sua forma infin dove vergogna cela.

61      Cosí dal palco di notturna scena
      o ninfa o dea, tarda sorgendo, appare.
      Questa, benché non sia vera sirena
      ma sia magica larva, una ben pare
      di quelle che già presso a la tirrena
      piaggia abitàr l'insidioso mare;
      né men ch'in viso bella, in suono è dolce,
      e cosí canta, e 'l cielo e l'aure molce:

62      `O giovenetti, mentre aprile e maggio
      v'ammantan di fiorite e verdi spoglie,
      di gloria e di virtú fallace raggio
      la tenerella mente ah non v'invoglie!
      Solo chi segue ciò che piace è saggio,
      e in sua stagion de gli anni il frutto coglie.
      Questo grida natura. Or dunque voi
      indurarete l'alma a i detti suoi?

63      Folli, perché gettate il caro dono,
      che breve è sí, di vostra età novella?
      Nome, e senza soggetto idoli sono
      ciò che pregio e valore il mondo appella.
      La fama che invaghisce a un dolce suono
      voi superbi mortali, e par sí bella,
      è un'ecco, un sogno, anzi del sogno un'ombra,
      ch'ad ogni vento si dilegua e sgombra.

64      Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti
      l'alma tranquilla appaghi i sensi frali;
      oblii le noie andate, e non affretti
      le sue miserie in aspettando i mali.
      Nulla curi se 'l ciel tuoni o saetti,
      minacci egli a sua voglia e infiammi strali.
      Questo è saver, questa è felice vita:
      sí l'insegna natura e sí l'addita.'

65      Sí canta l'empia, e 'l giovenetto al sonno
      con note invoglia sí soavi e scórte.
      Quel serpe a poco a poco, e si fa donno
      sovra i sensi di lui possente e forte;
      né i tuoni omai destar, non ch'altri, il ponno
      da quella queta imagine di morte.
      Esce d'aguato allor la falsa maga
      e gli va sopra, di vendetta vaga.

66      Ma quando in lui fissò lo sguardo e vide
      come placido in vista egli respira,
      e ne' begli occhi un dolce atto che ride,
      benché sian chiusi (or che fia s'ei li gira?),
      pria s'arresta sospesa, e gli s'asside
      poscia vicina, e placar sente ogn'ira
      mentre il risguarda; e 'n su la vaga fronte
      pende omai sí che par Narciso al fonte.

67      E quei ch'ivi sorgean vivi sudori
      accoglie lievemente in un suo velo,
      e con un dolce ventillar gli ardori
      gli va temprando de l'estivo cielo.
      Cosí (chi 'l crederia?) sopiti ardori
      d'occhi nascosi distempràr quel gelo
      che s'indurava al cor piú che diamante,
      e di nemica ella divenne amante.

68      Di ligustri, di gigli e de le rose
      le quai fiorian per quelle piaggie amene,
      con nov'arte congiunte, indi compose
      lente ma tenacissime catene.
      Queste al collo, a le braccia, a i piè gli pose:
      cosí l'avinse e cosí preso il tiene;
      quinci, mentre egli dorme, il fa riporre
      sovra un suo carro, e ratta il ciel trascorre.

69      Né già ritorna di Damasco al regno,
      né dove ha il suo castello in mezzo a l'onde;
      ma ingelosita di sí caro pegno,
      e vergognosa del suo amor, s'asconde
      ne l'oceano immenso, ove alcun legno
      rado, o non mai, va de le nostre sponde,
      fuor tutti i nostri lidi; e quivi eletta
      per solinga sua stanza è un'isoletta.

70      Un'isoletta la qual nome prende
      con le vicine sue da la Fortuna.
      Quinci ella in cima a una montagna ascende
      disabitata e d'ombre oscura e bruna,
      e per incanto a lei nevose rende
      le spalle e i fianchi, e senza neve alcuna
      gli lascia il capo verdeggiante e vago,
      e vi fonda un palagio appresso un lago,

71      ove in perpetuo april molle amorosa
      vita seco ne mena il suo diletto.
      Or da cosí lontana e cosí ascosa
      prigion trar voi dovete il giovenetto,
      e vincer de la timida e gelosa
      le guardie, ond'è difeso il monte e 'l tetto;
      e già non mancherà chi là vi scòrga,
      e chi per l'alta impresa arme vi porga.

72      Trovarete, del fiume a pena sorti,
      donna giovin di viso, antica d'anni,
      ch'a i lunghi crini in su la fronte attorti
      fia nota ed al color vario de' panni.
      Questa per l'alto mar fia che vi porti
      piú ratta che non spiega aquila i vanni,
      piú che non vola il folgore; né guida
      la trovarete al ritornar men fida.

73      A piè del monte ove la maga alberga,
      sibilando strisciar novi pitoni
      e cinghiali arrizzar l'aspre lor terga
      ed aprir la gran bocca orsi e leoni
      vedrete; ma scotendo una mia verga,
      temeranno appressarsi ove ella suoni.
      Poi via maggior (se dritto il ver s'estima)
      si troverà il periglio in su la cima.

74      Un fonte sorge in lei che vaghe e monde
      ha l'acque sí che i riguardanti asseta;
      ma dentro a i freddi suoi cristalli asconde
      di tòsco estran malvagità secreta,
      ch'un picciol sorso di sue lucide onde
      inebria l'alma tosto e la fa lieta,
      indi a rider uom move, e tanto il riso
      s'avanza alfin ch'ei ne rimane ucciso.

75      Lunge la bocca disdegnosa e schiva
      torcete voi da l'acque empie omicide,
      né le vivande poste in verde riva
      v'allettin poi, né le donzelle infide
      che voce avran piacevole e lasciva
      e dolce aspetto che lusinga e ride;
      ma voi, gli sguardi e le parole accorte
      sprezzando, entrate pur ne l'alte porte.

76      Dentro è di muri inestricabil cinto
      che mille torce in sé confusi giri,
      ma in breve foglio io ve 'l darò distinto,
      sí che nessun error fia che v'aggiri.
      Siede in mezzo un giardin del labirinto
      che par che da ogni fronde amore spiri;
      quivi in grembo a la verde erba novella
      giacerà il cavaliero e la donzella.

77      Ma come essa lasciando il caro amante
      in altra parte il piede avrà rivolto,
      vuo' ch'a lui vi scopriate, e d'adamante
      un scudo ch'io darò gli alziate al volto,
      sí ch'egli vi si specchi, e 'l suo sembiante
      veggia e l'abito molle onde fu involto,
      ch'a tal vista potrà vergogna e sdegno
      scacciar dal petto suo l'amor indegno.

78      Altro che dirvi omai nulla m'avanza
      se non ch'assai securi ir ne potrete
      e penetrar de l'intricata stanza
      ne le piú interne parti e piú secrete,
      perché non fia che magica possanza
      a voi ritardi il corso o 'l passo viete;
      né potrà pur, cotal virtú vi guida,
      il giunger vostro antiveder Armida.

79      Né men secura da gli alberghi suoi
      l'uscita vi sarà poscia e 'l ritorno.
      Ma giunge omai l'ora del sonno, e voi
      sorger diman dovete a par co 'l giorno."
      Cosí lor disse, e li menò dopoi
      ove essi avean la notte a far soggiorno.
      Ivi lasciando lor lieti e pensosi,
      si ritrasse il buon vecchio a i suoi riposi.



canto QUINDICESIMO


1       Già richiamava il bel nascente raggio
      a l'opre ogni animal ch'in terra alberga,
      quando venendo a i due guerrieri il saggio
      portò il foglio e lo scudo e l'aurea verga.
      "Accingetevi" disse "al gran viaggio
      prima che 'l dí, che spunta, omai piú s'erga.
      Eccovi qui quanto ho promesso e quanto
      può de la maga superar l'incanto."

2       Erano essi già sorti e l'arme intorno
      a le robuste membra avean già messe,
      onde per vie che non rischiara il giorno
      tosto seguono il vecchio, e son l'istesse
      vestigia ricalcate or nel ritorno
      che furon prima nel venire impresse;
      ma giunti al letto del suo fiume: "Amici,
      io v'accommiato:" ei disse "ite felici."

3       Gli accoglie il rio ne l'alto seno, e l'onda
      soavemente in su gli spinge e porta,
      come suol inalzar leggiera fronda
      la qual da violenza in giú fu torta,
      e poi gli espon sovra la molle sponda.
      Quinci miràr la già promessa scorta,
      vider picciola nave e in poppa quella
      che guidar li dovea fatal donzella.

4       Crinita fronte essa dimostra, e ciglia
      cortesi e favorevoli e tranquille;
      e nel sembiante a gli angioli somiglia,
      tanta luce ivi par ch'arda e sfaville.
      La sua gonna or azzurra ed or vermiglia
      diresti, e si colora in guise mille,
      sí ch'uom sempre diversa a sé la vede
      quantunque volte a riguardarla riede.

5       Cosí piuma talor, che di gentile
      amorosa colomba il collo cinge,
      mai non si scorge a se stessa simile,
      ma in diversi colori al sol si tinge.
      Or d'accesi rubin sembra un monile,
      or di verdi smeraldi il lume finge,
      or insieme gli mesce, e varia e vaga
      in cento modi i riguardanti appaga.

6       "Entrate," dice "o fortunati, in questa
      nave ond'io l'ocean secura varco,
      cui destro è ciascun vento, ogni tempesta
      tranquilla, e lieve ogni gravoso incarco.
      Per ministra e per duce or me vi appresta
      il mio signor, del favor suo non parco."
      Cosí parlò la donna, e piú vicino
      fece poscia a la sponda il curvo pino.

7       Come la nobil coppia ha in sé raccolta,
      spinge la ripa e gli rallenta il morso,
      ed avendo la vela a l'aure sciolta,
      ella siede al governo e regge il corso.
      Gonfio è il torrente sí ch'a questa volta
      i navigli portar ben può su 'l dorso,
      ma questo è sí leggier che 'l sosterebbe
      qual altro rio per novo umor men crebbe.

8       Veloce sovra il natural costume
      spingon la vela inverso il lido i venti:
      biancheggian l'acque di canute spume,
      e rotte dietro mormorar le senti.
      Ecco giungono omai là dove il fiume
      queta in letto maggior l'onde correnti,
      e ne l'ampie voragini del mare
      disperso o divien nulla o nulla appare.

9       A pena ha tocco la mirabil nave
      de la marina allor turbata il lembo,
      che spariscon le nubi e cessa il grave
      Noto che minacciava oscuro nembo:
      spiana i monti de l'onde aura soave
      e solo increspa il bel ceruleo grembo,
      e d'un dolce seren diffuso ride
      il ciel, che sé piú chiaro unqua non vide.

10      Trascorse oltre Ascalona ed a mancina
      andò la navicella invèr ponente,
      e tosto a Gaza si trovò vicina
      che fu porto di Gaza anticamente,
      ma poi, crescendo de l'altrui ruina,
      città divenne assai grande e possente;
      ed eranvi le piagge allor ripiene
      quasi d'uomini sí come d'arene.

11      Volgendo il guardo a terra i naviganti
      scorgean di tende numero infinito:
      miravan cavalier, miravan fanti
      ire e tornar da la cittade al lito,
      e da cameli onusti e da elefanti
      l'arenoso sentier calpesto e trito;
      poi del porto vedean ne' fondi cavi
      sorte e legate a l'ancore le navi,

12      altre spiegar le vele, e ne vedieno
      altre i remi trattar veloci e snelle,
      e da essi e da' rostri il molle seno
      spumar percosso in queste parti e in quelle.
      Disse la donna allor: "Benché ripieno
      il lido e 'l mar sia de le genti felle,
      non ha insieme però le schiere tutte
      il potente tiranno anco ridutte.

13      Sol dal regno d'Egitto e dal contorno
      raccolte ha queste; or le lontane attende,
      ché verso l'oriente e 'l mezzogiorno
      il vasto imperio suo molto si stende.
      Sí che sper'io che prima assai ritorno
      fatto avrem noi che mova egli le tende:
      egli o quel ch'in sua vece esser soprano
      de l'essercito suo de' capitano."

14      Mentre ciò dice, come aquila sòle
      tra gli altri augelli trapassar secura
      e sorvolando ir tanto appresso il sole
      che nulla vista piú la raffigura,
      cosí la nave sua sembra che vóle
      tra legno e legno, e non ha tema o cura
      che vi sia chi l'arresti o chi la segua;
      e da lor s'allontana e si dilegua.

15      E 'n un momento incontra Raffia arriva,
      città la qual in Siria appar primiera
      a chi d'Egitto move; indi a la riva
      sterilissima vien di Rinocera.
      Non lunge un monte poi le si scopriva
      che sporge sovra 'l mar la chioma altera
      e i piè si lava ne l'instabil onde,
      che l'ossa di Pompeo nel grembo asconde.

16      Poi Damiata scopre, e come porte
      al mar tributo di celesti umori
      per sette il Nilo sue famose porte
      e per cento altre ancor foci minori;
      e naviga oltre la città dal forte
      greco fondata a i greci abitatori,
      ed oltra Faro, isola già che lunge
      giacque dal lido, al lido or si congiunge.

17      Rodi e Creta lontane inverso al polo
      non scerne, e pur lungo Africa se 'n viene,
      su 'l mar culta e ferace, a dentro solo
      fertil di mostri e d'infeconde arene.
      La Marmarica rade, e rade il suolo
      dove cinque cittadi ebbe Cirene.
      Qui Tolomitta e poi con l'onde chete
      sorger si mira il fabuloso Lete.

18      La maggior Sirte a' naviganti infesta,
      trattasi in alto, invèr le piaggie lassa,
      e 'l capo di Giudeca indietro resta,
      e la foce di Magra indi trapassa.
      Tripoli appar su 'l lido, e 'ncontra a questa
      giace Malta fra l'onde occulta e bassa;
      e poi riman con l'altre Sirti a tergo
      Alzerbe, già de' Lotofagi albergo.

19      Nel curvo lido poi Tunisi vede
      che d'ambo i lati del suo golfo ha un monte.
      Tunisi, ricca ed onorata sede
      a par di quante n'ha Libia piú conte.
      A lui di costa la Sicilia siede,
      ed il gran Lilibeo gli inalza a fronte.
      Or quivi addita la donzella a i due
      guerrieri il loco ove Cartagin fue.

20      Giace l'alta Cartago: a pena i segni
      de l'alte sue ruine il lido serba.
      Muoiono le città, muoiono i regni,
      copre i fasti e le pompe arena ed erba,
      e l'uom d'esser mortal par che si sdegni:
      oh nostra mente cupida e superba!
      Giungon quinci a Biserta, e piú lontano
      han l'isola de' Sardi a l'altra mano.

21      Trascorser poi le piaggie ove i Numidi
      menàr gia vita pastorale erranti.
      Trovàr Bugia ed Algieri, infami nidi
      di corsari, ed Oràn trovàr piú inanti;
      e costeggiàr di Tingitana i lidi,
      nutrice di leoni e d'elefanti,
      ch'or di Marocco è il regno, e quel di Fessa;
      e varcàr la Granata incontro ad essa.

22      Son già là dove il mar fra terra inonda
      per via ch'esser d'Alcide opra si finse;
      e forse è ver ch'una continua sponda
      fosse, ch'alta ruina in due distinse.
      Passovvi a forza l'oceano, e l'onda
      Abila quinci e quindi Calpe spinse;
      Spagna e Libia partio con foce angusta:
      tanto mutar può lunga età vetusta!

23      Quattro volte era apparso il sol ne l'orto
      da che la nave si spiccò dal lito,
      né mai (ch'uopo non fu) s'accolse in porto,
      e tanto del camino ha già fornito.
      Or entra ne lo stretto e passa il corto
      varco, e s'ingolla in pelago infinito.
      Se 'l mar qui è tanto ove il terreno il serra,
      che fia colà dov'egli ha in sen la terra?

24      Piú non si mostra omai tra gli alti flutti
      la fertil Gade e l'altre due vicine.
      Fuggite son le terre e i lidi tutti:
      de l'onda il ciel, del ciel l'onda è confine.
      Diceva Ubaldo allor: "Tu che condutti
      n'hai, donna, in questo mar che non ha fine,
      di' s'altri mai qui giunse, o se piú inante
      nel mondo ove corriamo have abitante."

25      Risponde: "Ercole, poi ch'uccisi i mostri
      ebbe di Libia e del paese ispano,
      e tutti scòrsi e vinti i lidi vostri,
      non osò di tentar l'alto oceano:
      segnò le mète, e 'n troppo brevi chiostri
      l'ardir ristrinse de l'ingegno umano;
      ma quei segni sprezzò ch'egli prescrisse.
      di veder vago e di saper, Ulisse.

26      Ei passò le Colonne, e per l'aperto
      mare spiegò de' remi il volo audace;
      ma non giovogli esser ne l'onde esperto,
      perché inghiottillo l'ocean vorace,
      e giacque co 'l suo corpo anco coperto
      il suo gran caso, ch'or tra voi si tace.
      S'altri vi fu da' venti a forza spinto,
      o non tornovvi o vi rimase estinto;

27      sí ch'ignoto è 'l gran mar che solchi: ignote
      isole mille e mille regni asconde;
      né già d'abitator le terre han vòte,
      ma son come le vostre anco feconde:
      son esse atte al produr, né steril pote
      esser quella virtú che 'l sol n'infonde."
      Ripiglia Ubaldo allor: "Del mondo occulto,
      dimmi quai sian le leggi e quale il culto."

28      Gli soggiunse colei: "Diverse bande
      diversi han riti ed abiti e favelle:
      altri adora le belve, altri la grande
      comune madre, il sole altri e le stelle;
      v'è chi d'abominevoli vivande
      le mense ingombra scelerate e felle.
      E 'n somma ognun che 'n qua da Calpe siede
      barbaro è di costume, empio di fede."

29      "Dunque" a lei replicava il cavaliero
      "quel Dio che scese a illuminar le carte
      vuol ogni raggio ricoprir del vero
      a questa che del mondo è sí gran parte?"
      "No." rispose ella "anzi la fé di Piero
      fiavi introdotta ed ogni civil arte;
      né già sempre sarà che la via lunga
      questi da' vostri popoli disgiunga.

30      Tempo verrà che fian d'Ercole i segni
      favola vile a i naviganti industri,
      e i mar riposti, or senza nome, e i regni
      ignoti ancor tra voi saranno illustri.
      Fia che 'l piú ardito allor di tutti i legni
      quanto circonda il mar circondi e lustri,
      e la terra misuri, immensa mole,
      vittorioso ed emulo del sole.

31      Un uom de la Liguria avrà ardimento
      a l'incognito corso esporsi in prima;
      né 'l minaccievol fremito del vento,
      né l'inospito mar, né 'l dubbio clima,
      né s'altro di periglio e di spavento
      piú grave e formidabile or si stima,
      faran che 'l generoso entro a i divieti
      d'Abila angusti l'alta mente accheti.

32      Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo
      lontane sí le fortunate antenne,
      ch'a pena seguirà con gli occhi il volo
      la fama c'ha mille occhi e mille penne.
      Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
      basti a i posteri tuoi ch'alquanto accenne,
      ché quel poco darà lunga memoria
      di poema dignissima e d'istoria."

33      Cosí disse ella; e per l'ondose strade
      corre al ponente e piega al mezzogiorno
      e vede come incontra il sol giú cade
      e come a tergo lor rinasce il giorno.
      E quando a punto i raggi e le rugiade
      la bella aurora seminava intorno,
      lor s'offrí di lontano oscuro un monte
      che tra le nubi nascondea la fronte.

34      E 'l vedean poscia procedendo avante,
      quando ogni nuvol già n'era rimosso,
      a l'acute piramidi sembiante,
      sottile invèr la cima e 'n mezzo grosso,
      e mostrarsi talor cosí fumante
      come quel che d'Encelado è su 'l dosso,
      che per propria natura il giorno fuma
      e poi la notte il ciel di fiamme alluma.

35      Ecco altre isole insieme, altre pendici
      scoprian alfin, men erte ed elevate;
      ed eran queste l'isole Felici,
      cosí le nominò la prisca etate,
      a cui tanto stimava i cieli amici
      che credea volontarie e non arate
      quivi produr le terre, e 'n piú graditi
      frutti non culte germogliar le viti.

36      Qui non fallaci mai fiorir gli olivi
      e 'l mèl dicea stillar da l'elci cave,
      e scender giú da lor montagne i rivi
      con acque dolci e mormorio soave,
      e zefiri e rugiade i raggi estivi
      temprarvi sí che nullo ardor v'è grave;
      e qui gli elisi campi e le famose
      stanze de le beate anime pose.

37      A queste or vien la donna, ed: "Omai sète
      dal fin del corso" lor dicea "non lunge.
      L'isole di Fortuna ora vedete,
      di cui gran fama a voi ma incerta giunge.
      Ben son elle feconde e vaghe e liete,
      ma pur molto di falso al ver s'aggiunge."
      Cosí parlando, assai presso si fece
      a quella che la prima è de le diece.

38      Carlo incomincia allor: "Se ciò concede,
      donna, quell'alta impresa ove ci guidi,
      lasciami omai por ne la terra il piede
      e veder questi inconosciuti lidi,
      veder le genti e 'l culto di lor fede
      e tutto quello ond'uom saggio m'invídi,
      quando mi gioverà narrar altrui
      le novità vedute e dir: `Io fui!'"

39      Gli rispose colei: "Ben degna in vero
      la domanda è di te, ma che poss'io,
      s'egli osta inviolabile e severo
      il decreto de' Cieli al bel desio?
      ch'ancor vòlto non è lo spazio intero
      ch'al grande scoprimento ha fisso Dio,
      né lece a voi da l'ocean profondo
      recar vera notizia al vostro mondo.

40      A voi per grazia e sovra l'arte e l'uso
      de' naviganti ir per quest'acque è dato,
      e scender là dove è il guerrier rinchiuso
      e ridurlo del mondo a l'altro lato.
      Tanto vi basti, e l'aspirar piú suso
      superbir fòra e calcitrar co 'l fato."
      Qui tacque, e già parea piú bassa farsi
      l'isola prima e la seconda alzarsi.

41      Ella mostrando gía ch'a l'oriente
      tutte con ordin lungo eran dirette,
      e che largo è fra lor quasi egualmente
      quello spazio di mar che si framette.
      Pònsi veder d'abitatrice gente
      case e culture ed altri segni in sette;
      tre deserte ne sono, e v'han le belve
      securissima tana in monti e in selve.

42      Luogo è in una de l'erme assai riposto,
      ove si curva il lido e in fuori stende
      due larghe corna, e fra lor tiene ascosto
      un ampio sen, e porto un scoglio rende,
      ch'a lui la fronte e 'l tergo a l'onda ha opposto
      che vien da l'alto e la respinge e fende.
      S'inalzan quinci e quindi, e torreggianti
      fan due gran rupi segno a' naviganti.

43      Tacciono sotto i mar securi in pace
      sovra ha di negre selve opaca scena,
      e 'n mezzo d'esse una spelonca giace,
      d'edera e d'ombre e di dolci acque amena.
      Fune non lega qui, né co 'l tenace
      morso le stanche navi ancora frena.
      La donna in sí solinga e queta parte
      entrava, e raccogliea le vele sparte.

44      "Mirate" disse poi "quell'alta mole
      ch'a quel gran monte in su la cima siede.
      Quivi fra cibi ed ozio e scherzi e fole
      torpe il campion de la cristiana fede.
      Voi con la guida del nascente sole
      su per quell'erto moverete il piede;
      né vi gravi il tardar, però che fòra,
      se non la matutina, infausta ogn'ora.

45      Ben co 'l lume del dí ch'anco riluce
      insino al monte andar per voi potrassi."
      Essi al congedo de la nobil duce
      poser nel lido desiato i passi,
      e ritrovàr la via ch'a lui conduce
      agevol sí ch'i piè non ne fur lassi;
      ma quando v'arrivàr, da l'oceano
      era il carro di Febo anco lontano.

46      Veggion che per dirupi e fra ruine
      s'ascende a la sua cima alta e superba,
      e ch'è fin là di nevi e di pruine
      sparsa ogni strada: ivi ha poi fiori ed erba.
      Presso al canuto mento il verde crine
      frondeggia, e 'l ghiaccio fede a i gigli serba
      ed a le rose tenere: cotanto
      puote sovra natura arte d'incanto.

47      I duo guerrier, in luogo ermo e selvaggio
      chiuso d'ombre, fermàrsi a piè del monte;
      e come il ciel rigò co 'l novo raggio
      il sol, de l'aurea luce eterno fonte:
      "Su su" gridaro entrambi, e 'l lor viaggio
      ricominciàr con voglie ardite e pronte.
      Ma esce non so donde, e s'attraversa
      fèra serpendo orribile e diversa.

48      Inalza d'oro squallido squamose
      le creste e 'l capo, e gonfia il collo d'ira,
      arde ne gli occhi, e le vie tutte ascose
      tien sotto il ventre, e tòsco e fumo spira;
      or rientra in se stessa, or le nodose
      ruote distende, e sé dopo sé tira.
      Tal s'appresenta a la solita guarda,
      né però de' guerrieri i passi tarda.

49      Già Carlo il ferro stringe e 'l serpe assale,
      ma l'altro grida a lui: "Che fai? che tente?
      per isforzo di man, con arme tale
      vincer avisi il difensor serpente?"
      Egli scote la verga aurea immortale
      sí che la belva il sibilar ne sente,
      e impaurita al suon, fuggendo ratta,
      lascia quel varco libero e s'appiatta.

50      Piú suso alquanto il passo a lor contende
      fero leon che rugge e torvo guata,
      e i velli arrizza, e le caverne orrende
      de la bocca vorace apre e dilata.
      Si sferza con la coda e l'ire accende,
      ma non è pria la verga a lui mostrata
      ch'un secreto spavento al cor gli agghiaccia
      l'ira e 'l nativo orgoglio, e 'n fuga il caccia.

51      Segue la coppia il suo camin veloce,
      ma formidabile oste han già davante
      di guerrieri animai, vari di voce,
      vari di moto, vari di sembiante.
      Ciò che di mostruoso e di feroce
      erra fra 'l Nilo e i termini d'Atlante
      par qui tutto raccolto, e quante belve
      l'Ercinia ha in sen, quante l'ircane selve.

52      Ma pur sí fero essercito e sí grosso
      non vien che lor respinga o che resista,
      anzi (miracol novo) in fuga è mosso
      da un picciol fischio e da una breve vista.
      La coppia omai vittoriosa il dosso
      de la montagna senza intoppo acquista,
      se non se in quanto il gelido e l'alpino
      de le rigide vie tarda il camino.

53      Ma poi che già le nevi ebber varcate
      e superato il discosceso e l'erto,
      un bel tepido ciel di dolce state
      trovaro, e 'l pian su 'l monte ampio ed aperto.
      Aure fresche mai sempre ed odorate
      vi spiran con tenor stabile e certo,
      né i fiati lor, sí come altrove sòle;
      sopisce o desta, ivi girando, il sole;
      

54      né, come altrove suol, ghiacci ed ardori
      nubi e sereni a quelle piaggie alterna,
      ma il ciel di candidissimi splendori
      sempre s'ammanta e non s'infiamma o verna,
      e nudre a i prati l'erba, a l'erba i fiori,
      a i fior l'odor, l'ombra a le piante eterna.
      Siede su 'l lago e signoreggia intorno
      i monti e i mari il bel palagio adorno.

55      I cavalier per l'alta aspra salita
      sentiansi alquanto affaticati e lassi,
      onde ne gian per quella via fiorita
      lenti or movendo ed or fermando i passi.
      Quando ecco un fonte, che a bagnar gli invita
      l'asciutte labbia, alto cader da' sassi
      e da una larga vena, e con ben mille
      zampilletti spruzzar l'erbe di stille.

56      Ma tutta insieme poi tra verdi sponde
      in profondo canal l'acqua s'aduna,
      e sotto l'ombra di perpetue fronde
      mormorando se 'n va gelida e bruna,
      ma trasparente sí che non asconde
      de l'imo letto suo vaghezza alcuna;
      e sovra le sue rive alta s'estolle
      l'erbetta, e vi fa seggio fresco e molle.

57      "Ecco il fonte del riso, ed ecco il rio
      che mortali perigli in sé contiene.
      Or qui tener a fren nostro desio
      ed esser cauti molto a noi conviene:
      chiudiam l'orecchie al dolce canto e rio
      di queste del piacer false sirene,
      cosí n'andrem fin dove il fiume vago
      si spande in maggior letto e forma un lago."

58      Quivi de' cibi preziosa e cara
      apprestata è una mensa in su le rive,
      e scherzando se 'n van per l'acqua chiara
      due donzellette garrule e lascive,
      ch'or si spruzzano il volto, or fanno a gara
      chi prima a un segno destinato arrive.
      Si tuffano talor, e 'l capo e 'l dorso
      scoprono alfin dopo il celato corso.

59      Mosser le natatrici ignude e belle
      de' duo guerrieri alquanto i duri petti,
      sí che fermàrsi a riguardarle; ed elle
      seguian pur i lor giochi e i lor diletti.
      Una intanto drizzossi, e le mammelle
      e tutto ciò che piú la vista alletti
      mostrò dal seno in suso, aperto al cielo;
      e 'l lago a l'altre membra era un bel velo.

60      Qual matutina stella esce de l'onde
      rugiadosa e stillante, o come fuore
      spuntò nascendo già da le feconde
      spume de l'ocean la dea d'amore,
      tal apparve costei, tal le sue bionde
      chiome stillavan cristallino umore.
      Poi girò gli occhi, e pur allor s'infinse
      que' duo vedere e in sé tutta si strinse;

61      e 'l crin, ch'in cima al capo avea raccolto
      in un sol nodo, immantinente sciolse,
      che lunghissimo in giú cadendo e folto
      d'un aureo manto i molli avori involse.
      Oh che vago spettacolo è lor tolto!
      ma non men vago fu chi loro il tolse.
      Cosí da l'acque e da' capelli ascosa
      a lor si volse lieta e vergognosa.

62      Rideva insieme e insieme ella arrossia,
      ed era nel rossor piú bello il riso
      e nel riso il rossor che le copria
      insino al mento il delicato viso.
      Mosse la voce poi sí dolce e pia
      che fòra ciascun altro indi conquiso:
      "Oh fortunati peregrin, cui lice
      giungere in questa sede alma e felice!

63      Questo è il porto del mondo; e qui è il ristoro
      de le sue noie, e quel piacer si sente
      che già sentí ne' secoli de l'oro
      l'antica e senza fren libera gente.
      L'arme, che sin a qui d'uopo vi foro,
      potete omai depor securamente
      e sacrarle in quest'ombra a la quiete,
      ché guerrier qui solo d'Amor sarete,

64      e dolce campo di battaglia il letto
      fiavi e l'erbetta morbida de' prati.
      Noi menarenvi anzi il regale aspetto
      di lei che qui fa i servi suoi beati,
      che v'accorrà nel bel numero eletto
      di quei ch'a le sue gioie ha destinati.
      Ma pria la polve in queste acque deporre
      vi piaccia, e 'l cibo a quella mensa tòrre."

65      L'una disse cosí, l'altra concorde
      l'invito accompagnò d'atti e di sguardi,
      sí come al suon de le canore corde
      s'accompagnano i passi or presti or tardi.
      Ma i cavalieri hanno indurate e sorde
      l'alme a que' vezzi perfidi e bugiardi,
      e 'l lusinghiero aspetto e 'l parlar dolce
      di fuor s'aggira e solo i sensi molce.

66      E se di tal dolcezza entro trasfusa
      parte penètra onde il desio germoglie,
      tosto ragion ne l'arme sue rinchiusa
      sterpa e riseca le nascenti voglie.
      L'una coppia riman vinta e delusa,
      l'altra se 'n va, né pur congedo toglie.
      Essi entràr nel palagio, esse ne l'acque
      tuffàrsi: la repulsa a lor sí spiacque.