Gerusalemme liberata, canti 16 e 17

POEMA DEL SIGNOR TORQUATO TASSO AL SERENISSIMO SIGNORE IL SIGNOR DONNO ALFONSO II D'ESTE DUCA DI FERRARA

canto SEDICESIMO


1       Tondo è il ricco edificio, e nel piú chiuso
      grembo di lui, ché quasi centro al giro,
      un giardin v'ha ch'adorno è sovra l'uso
      di quanti piú famosi unqua fioriro.
      D'intorno inosservabile e confuso
      ordin di loggie i demon fabri ordiro,
      e tra le oblique vie di quel fallace
      ravolgimento impenetrabil giace.

2       Per l'entrata maggior (però che cento
      l'ampio albergo n'avea) passàr costoro.
      Le porte qui d'effigiato argento
      su i cardini stridean di lucid'oro.
      Fermàr ne le figure il guardo intento,
      ché vinta la materia è dal lavoro:
      manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
      né manca questo ancor, s'a gli occhi credi.

3       Mirasi qui fra le meonie ancelle
      favoleggiar con le conocchia Alcide.
      Se l'inferno espugnò, resse le stelle,
      or torce il fuso; Amor se 'l guarda, e ride.
      Mirasi Iole con la destra imbelle
      per ischerno trattar l'armi omicide;
      e indosso ha il cuoio del leon, che sembra
      ruvido troppo a sí tenere membra.

4       D'incontra è un mare, e di canuto flutto
      vedi spumanti i suoi cerulei campi.
      Vedi nel mezzo un doppio ordine instrutto
      di navi e d'arme, e uscir da l'arme i lampi.
      D'oro fiammeggia l'onda, e par che tutto
      d'incendio marzial Leucate avampi.
      Quinci Augusto i Romani, Antonio quindi
      trae l'Oriente: Egizi, Arabi ed Indi.

5       Svelte notar le Cicladi diresti
      per l'onde, e i monti co i gran monti urtarsi;
      l'impeto è tanto, onde quei vanno e questi
      co' legni torreggianti ad incontrarsi.
      Già volàr faci e dardi, e già funesti
      sono di nova strage i mari sparsi.
      Ecco (né punto ancor la pugna inchina)
      ecco fuggir la barbara reina.

6       E fugge Antonio, e lasciar può la speme
      de l'imperio del mondo ov'egli aspira.
      Non fugge no, non teme il fier, non teme,
      ma segue lei che fugge e seco il tira.
      Vedresti lui, simile ad uom che freme
      d'amore a un tempo e di vergogna e d'ira,
      mirar alternamente or la crudele
      pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele.

7       Ne le latebre poi del Nilo accolto
      attender par in grembo a lei la morte,
      e nel piacer d'un bel leggiadro volto
      sembra che 'l duro fato egli conforte.
      Di cotai segni variato e scolto
      era il metallo de le regie porte.
      I due guerrier, poi che dal vago obietto
      rivolser gli occhi, entràr nel dubbio tetto.

8       Qual Meandro fra rive oblique e incerte
      scherza e con dubbio corso or cala or monta,
      queste acque a i fonti e quelle al mar converte,
      e mentre ei vien, sé che ritorna affronta,
      tali e piú inestricabili conserte
      son queste vie, ma il libro in sé le impronta
      (il libro, don del mago) e d'esse in modo
      parla che le risolve, e spiega il nodo.

9       Poi che lasciàr gli aviluppati calli,
      in lieto aspetto il bel giardin s'aperse:
      acque stagnanti, mobili cristalli,
      fior vari e varie piante, erbe diverse,
      apriche collinette, ombrose valli,
      selve e spelonche in una vista offerse;
      e quel che 'l bello e 'l caro accresce a l'opre,
      l'arte, che tutto fa, nulla si scopre.

10      Stimi (sí misto il culto è co 'l negletto)
      sol naturali e gli ornamenti e i siti.
      Di natura arte par, che per diletto
      l'imitatrice sua scherzando imiti.
      L'aura, non ch'altro, è de la maga effetto,
      l'aura che rende gli alberi fioriti:
      co' fiori eterni eterno il frutto dura,
      e mentre spunta l'un, l'altro matura.

11      Nel tronco istesso e tra l'istessa foglia
      sovra il nascente fico invecchia il fico;
      pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
      l'altro con verde, il novo e 'l pomo antico;
      lussureggiante serpe alto e germoglia
      la torta vite ov'è piú l'orto aprico:
      qui l'uva ha in fiori acerba, e qui d'or l'have
      e di piropo e già di nèttar grave.

12      Vezzosi augelli infra le verdi fronde
      temprano a prova lascivette note;
      mormora l'aura, e fa le foglie e l'onde
      garrir che variamente ella percote.
      Quando taccion gli augelli alto risponde,
      quando cantan gli augei piú lieve scote;
      sia caso od arte, or accompagna, ed ora
      alterna i versi lor la musica òra.

13      Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
      di color vari ed ha purpureo il rostro,
      e lingua snoda in guisa larga, e parte
      la voce sí ch'assembra il sermon nostro.
      Questi ivi allor continovò con arte
      tanta il parlar che fu mirabil mostro.
      Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
      e fermaro i susurri in aria i venti.

14      "Deh mira" egli cantò "spuntar la rosa
      dal verde suo modesta e verginella,
      che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
      quanto si mostra men, tanto è piú bella.
      Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
      dispiega; ecco poi langue e non par quella,
      quella non par che desiata inanti
      fu da mille donzelle e mille amanti.

15      Cosí trapassa al trapassar d'un giorno
      de la vita mortale il fiore e 'l verde;
      né perché faccia indietro april ritorno,
      si rinfiora ella mai, né si rinverde.
      Cogliam la rosa in su 'l mattino adorno
      di questo dí, che tosto il seren perde;
      cogliam d'amor la rosa: amiamo or quando
      esser si puote riamato amando."

16      Tacque, e concorde de gli augelli il coro,
      quasi approvando, il canto indi ripiglia.
      Raddoppian le colombe i baci loro,
      ogni animal d'amar si riconsiglia;
      par che la dura quercia e 'l casto alloro
      e tutta la frondosa ampia famiglia,
      par che la terra e l'acqua e formi e spiri
      dolcissimi d'amor sensi e sospiri.

17      Fra melodia sí tenera, fra tante
      vaghezze allettatrici e lusinghiere,
      va quella coppia, e rigida e costante
      se stessa indura a i vezzi del piacere.
      Ecco tra fronde e fronde il guardo inante
      penetra e vede, o pargli di vedere,
      vede pur certo il vago e la diletta,
      ch'egli è in grembo a la donna, essa a l'erbetta.

18      Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
      e 'l crin sparge incomposto al vento estivo;
      langue per vezzo, e 'l suo infiammato viso
      fan biancheggiando i bei sudor piú vivo:
      qual raggio in onda, le scintilla un riso
      ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.
      Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle
      le posa il capo, e 'l volto al volto attolle,

19      e i famelici sguardi avidamente
      in lei pascendo si consuma e strugge.
      S'inchina, e i dolci baci ella sovente
      liba or da gli occhi e da le labra or sugge,
      ed in quel punto ei sospirar si sente
      profondo sí che pensi: "Or l'alma fugge
      e 'n lei trapassa peregrina." Ascosi
      mirano i due guerrier gli atti amorosi.

20      Dal fianco de l'amante (estranio arnese)
      un cristallo pendea lucido e netto.
      Sorse, e quel fra le mani a lui sospese
      a i misteri d'Amor ministro eletto.
      Con luci ella ridenti, ei con accese,
      mirano in vari oggetti un solo oggetto:
      ella del vetro a sé fa specchio, ed egli
      gli occhi di lei sereni a sé fa spegli.

21      L'uno di servitú, l'altra d'impero
      si gloria, ella in se stessa ed egli in lei.
      "Volgi," dicea "deh volgi" il cavaliero
      "a me quegli occhi onde beata bèi,
      ché son, se tu no 'l sai, ritratto vero
      de le bellezze tue gli incendi miei;
      la forma lor, la meraviglia a pieno
      piú che il cristallo tuo mostra il mio seno.

22      Deh! poi che sdegni me, com'egli è vago
      mirar tu almen potessi il proprio volto;
      ché il guardo tuo, ch'altrove non è pago,
      gioirebbe felice in sé rivolto.
      Non può specchio ritrar sí dolce imago,
      né in picciol vetro è un paradiso accolto:
      specchio t'è degno il cielo, e ne le stelle
      puoi riguardar le tue sembianze belle."

23      Ride Armida a quel dir, ma non che cesse
      dal vagheggiarsi e da' suoi bei lavori.
      Poi che intrecciò le chiome e che ripresse
      con ordin vago i lor lascivi errori,
      torse in anella i crin minuti e in esse,
      quasi smalto su l'or, cosparse i fiori;
      e nel bel sen le peregrine rose
      giunse a i nativi gigli, e 'l vel compose.

24      Né 'l superbo pavon sí vago in mostra
      spiega la pompa de l'occhiute piume,
      né l'iride sí bella indora e mostra
      il curvo grembo e rugiadoso al lume.
      Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra
      che né pur nuda ha di lasciar costume.
      Diè corpo a chi non l'ebbe, e quando il fece
      tempre mischiò ch'altrui mescer non lece.

25      Teneri sdegni, e placide e tranquille
      repulse, e cari vezzi, e liete paci,
      sorrise parolette, e dolci stille
      di pianto, e sospir tronchi, e molli baci:
      fuse tai cose tutte, e poscia unille
      ed al foco temprò di lente faci,
      e ne formò quel sí mirabil cinto
      di ch'ella aveva il bel fianco succinto.

26      Fine alfin posto al vagheggiar, richiede
      a lui commiato, e 'l bacia e si diparte.
      Ella per uso il dí n'esce e rivede
      gli affari suoi, le sue magiche carte.
      Egli riman, ch'a lui non si concede
      por orma o trar momento in altra parte,
      e tra le fère spazia e tra le piante,
      se non quanto è con lei, romito amante.

27      Ma quando l'ombra co i silenzi amici
      rappella a i furti lor gli amanti accorti
      traggono le notturne ore felici
      sotto un tetto medesmo entro a quegli orti.
      Ma poi che vòlta a piú severi uffici
      lasciò Armida il giardino e i suoi diporti,
      i duo, che tra i cespugli eran celati,
      scoprirsi a lui pomposamente armati.

28      Qual feroce destrier ch'al faticoso
      onor de l'arme vincitor sia tolto,
      e lascivo marito in vil riposo
      fra gli armenti e ne' paschi erri disciolto,
      se 'l desta o suon di tromba o luminoso
      acciar, colà tosto annitrendo è vòlto,
      già già brama l'arringo e, l'uom su 'l dorso
      portando, urtato riurtar nel corso;

29      tal si fece il garzon, quando repente
      de l'arme il lampo gli occhi suoi percosse.
      Quel sí guerrier, quel sí feroce ardente
      suo spirto a quel fulgor tutto si scosse,
      benché tra gli agi morbidi languente,
      e tra i piaceri ebro e sopito ei fosse.
      Intanto Ubaldo oltra ne viene, e 'l terso
      adamantino scudo ha in lui converso.

30      Egli al lucido scudo il guardo gira,
      onde si specchia in lui qual siasi e quanto
      con delicato culto adorno; spira
      tutto odori e lascivie il crine e 'l manto,
      e 'l ferro, il ferro aver, non ch'altro, mira
      dal troppo lusso effeminato a canto:
      guernito è sí ch'inutile ornamento
      sembra, non militar fero instrumento.

31      Qual uom da cupo e grave sonno oppresso
      dopo vaneggiar lungo in sé riviene,
      tal ei tornò nel rimirar se stesso,
      ma se stesso mirar già non sostiene;
      giú cade il guardo, e timido e dimesso,
      guardando a terra, la vergogna il tiene.
      Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
      il foco per celarsi, e giú nel centro.

32      Ubaldo incominciò parlando allora:
      "Va l'Asia tutta e va l'Europa in guerra:
      chiunque e pregio brama e Cristo adora
      travaglia in arme or ne la siria terra.
      Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora
      del mondo, in ozio, un breve angolo serra;
      te sol de l'universo il moto nulla
      move, egregio campion d'una fanciulla.

33      Qual sonno o qual letargo ha sí sopita
      la tua virtute? o qual viltà l'alletta?
      Su su; te il campo e te Goffredo invita,
      te la fortuna e la vittoria aspetta.
      Vieni, o fatal guerriero, e sia fornita
      la ben comincia impresa; e l'empia setta,
      che già crollasti, a terra estinta cada
      sotto l'inevitabile tua spada."

34      Tacque, e 'l nobil garzon restò per poco
      spazio confuso e senza moto e voce.
      Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,
      sdegno guerrier de la ragion feroce,
      e ch'al rossor del volto un novo foco
      successe, che piú avampa e che piú coce,
      squarciossi i vani fregi e quelle indegne
      pompe, di servitú misera insegne;

35      ed affrettò il partire, e de la torta
      confusione uscí del labirinto.
      Intanto Armida de la regal porta
      mirò giacere il fier custode estinto.
      Sospettò prima, e si fu poscia accorta
      ch'era il suo caro al dipartirsi accinto;
      e 'l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
      dar, frettoloso, fuggitivo il tergo.

36      Volea gridar: "Dove, o crudel, me sola
      lasci?", ma il varco al suon chiuse il dolore,
      sí che tornò la flebile parola
      piú amara indietro a rimbombar su 'l core.
      Misera! i suoi diletti ora le invola
      forza e saper, del suo saper maggiore.
      Ella se 'l vede, e invan pur s'argomenta
      di ritenerlo e l'arti sue ritenta.

37      Quante mormorò mai profane note
      tessala maga con la bocca immonda,
      ciò ch'arrestar può le celesti rote
      e l'ombre trar de la prigion profonda,
      sapea ben tutte, e pur oprar non pote
      ch'almen l'inferno al suo parlar risponda.
      Lascia gli incanti, e vuol provar se vaga
      e supplice beltà sia miglior maga.

38      Corre, e non ha d'onor cura o ritegno.
      Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
      Costei d'Amor, quanto egli è grande, il regno
      volse e rivolse sol co 'l cenno inanti,
      e cosí pari al fasto ebbe lo sdegno,
      ch'amò d'essere amata, odiò gli amanti;
      sé gradí sola, e fuor di sé in altrui
      sol qualche effetto de' begli occhi sui.

39      Or negletta e schernita in abbandono
      rimase, segue pur chi fugge e sprezza;
      e procura adornar co' pianti il dono
      rifiutato per sé di sua bellezza.
      Vassene, ed al piè tenero non sono
      quel gelo intoppo e quella alpina asprezza;
      e invia per messaggieri inanzi i gridi,
      né giunge lui pria ch'ei sia giunto a i lidi.

40      Forsennata gridava: "O tu che porte
      parte teco di me, parte ne lassi,
      o prendi l'una o rendi l'altra, o morte
      dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
      sol che ti sian le voci ultime porte;
      non dico i baci, altra piú degna avrassi
      quelli da te. Che temi, empio, se resti?
      Potrai negar, poi che fuggir potesti."

41      Dissegli Ubaldo allor: "Già non conviene
      che d'aspettar costei, signor, ricusi;
      di beltà armata e de' suoi preghi or viene,
      dolcemente nel pianto amaro infusi.
      Qual piú forte di te, se le sirene
      vedendo ed ascoltando a vincer t'usi?
      cosí ragion pacifica reina
      de' sensi fassi, e se medesma affina."

42      Allor ristette il cavaliero, ed ella
      sovragiunse anelante e lagrimosa:
      dolente sí che nulla piú, ma bella
      altrettanto però quanto dogliosa.
      Lui guarda e in lui s'affisa, e non favella,
      o che sdegna o che pensa o che non osa.
      Ei lei non mira; e se pur mira, il guardo
      furtivo volge e vergognoso e tardo.

43      Qual musico gentil, prima che chiara
      altamente la voce al canto snodi,
      a l'armonia gli animi altrui prepara
      con dolci ricercate in bassi modi,
      cosí costei, che ne la doglia amara
      già tutte non oblia l'arti e le frodi,
      fa di sospir breve concento in prima
      per dispor l'alma in cui le voci imprima.

44      Poi cominciò: "Non aspettar ch'io preghi,
      crudel, te, come amante amante deve.
      Tai fummo un tempo; or se tal esser neghi,
      e di ciò la memoria anco t'è greve,
      come nemico almeno ascolta: i preghi
      d'un nemico talor l'altro riceve.
      Ben quel ch'io chieggio è tal che darlo puoi
      e integri conservar gli sdegni tuoi.

45      Se m'odii, e in ciò diletto alcun tu senti,
      non te 'n vengo a privar: godi pur d'esso.
      Giusto a te pare, e siasi. Anch'io le genti
      cristiane odiai, no 'l nego, odiai te stesso.
      Nacqui pagana, usai vari argomenti
      che per me fosse il vostro imperio oppresso;
      te perseguii, te presi, e te lontano
      da l'arme trassi in loco ignoto e strano.

46      Aggiungi a questo ancor quel ch'a maggiore
      onta tu rechi ed a maggior tuo danno:
      t'ingannai, t'allettai nel nostro amore;
      empia lusinga certo, iniquo inganno,
      lasciarsi còrre il virginal suo fiore,
      far de le sue bellezze altrui tiranno,
      quelle ch'a mille antichi in premio sono
      negate, offrire a novo amante in dono!

47      Sia questa pur tra le mie frodi, e vaglia
      sí di tante mie colpe in te il difetto
      che tu quinci ti parta e non ti caglia
      di questo albergo tuo già sí diletto.
      Vattene, passa il mar, pugna, travaglia,
      struggi la fede nostra: anch'io t'affretto.
      Che dico nostra? ah non piú mia! fedele
      sono a te solo, idolo mio crudele.

48      Solo ch'io segua te mi si conceda:
      picciola fra nemici anco richiesta.
      Non lascia indietro il predator la preda;
      va il trionfante, il prigionier non resta.
      Me fra l'altre tue spoglie il campo veda
      ed a l'altre tue lodi aggiunga questa,
      che la tua schernitrice abbia schernito
      mostrando me sprezzata ancella a dito.

49      Sprezzata ancella, a chi fo piú conserva
      di questa chioma, or ch'a te fatta è vile?
      Raccorcierolla: al titolo di serva
      vuo' portamento accompagnar servile.
      Te seguirò, quando l'ardor piú ferva
      de la battaglia, entro la turba ostile.
      Animo ho bene, ho ben vigor che baste
      a condurti i cavalli, a portar l'aste.

50      Sarò qual piú vorrai scudiero o scudo:
      non fia ch'in tua difesa io mi risparmi.
      Per questo sen, per questo collo ignudo,
      pria che giungano a te, passeran l'armi.
      Barbaro forse non sarà sí crudo
      che ti voglia ferir, per non piagarmi,
      condonando il piacer de la vendetta
      a questa, qual si sia, beltà negletta.

51      Misera! ancor presumo? ancor mi vanto
      di schernita beltà che nulla impetra?"
      Volea piú dir, ma l'interruppe il pianto
      che qual fonte sorgea d'alpina pietra.
      Prendergli cerca allor la destra o 'l manto,
      supplichevole in atto, ed ei s'arretra,
      resiste e vince; e in lui trova impedita
      Amor l'entrata, il lagrimar l'uscita.

52      Non entra Amor a rinovar nel seno,
      che ragion congelò, la fiamma antica;
      v'entra pietate in quella vece almeno,
      pur compagna d'Amor, benché pudica
      e lui commove in guisa tal ch'a freno
      può ritener le lagrime a fatica.
      Pur quel tenero affetto entro restringe,
      e quanto può gli atti compone e infinge.

53      Poi le risponde: "Armida, assai mi pesa
      di te; sí potess'io, come il farei,
      del mal concetto ardor l'anima accesa
      sgombrarti: odii non son, né sdegni i miei,
      né vuo' vendetta, né rammento offesa;
      né serva tu, né tu nemica sei.
      Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
      ora gli amori essercitando, or gli odi;

54      ma che? son colpe umane e colpe usate:
      scuso la natia legge, il sesso e gli anni.
      Anch'io parte fallii; s'a me pietate
      negar non vuo', non fia ch'io te condanni.
      Fra le care memorie ed onorate
      mi sarai ne le gioie e ne gli affanni,
      sarò tuo cavalier quanto concede
      la guerra d'Asia e con l'onor la fede.

55      Deh! che del fallir nostro or qui sia il fine
      e di nostre vergogne omai ti spiaccia,
      ed in questo del mondo ermo confine
      la memoria di lor sepolta giaccia.
      Sola, in Europa e ne le due vicine
      parti, fra l'opre mie questa si taccia.
      Deh! non voler che segni ignobil fregio
      tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.

56      Rimanti in pace, i' vado; a te non lice
      meco venir, chi mi conduce il vieta.
      Rimanti, o va per altra via felice,
      e come saggia i tuoi consigli acqueta."
      Ella, mentre il guerrier cosí le dice,
      non trova loco, torbida, inquieta;
      già buona pezza in dispettosa fronte
      torva riguarda, al fin prorompe a l'onte:

57      "Né te Sofia produsse e non sei nato
      de l'azio sangue tu; te l'onda insana
      del mar produsse e 'l Caucaso gelato,
      e le mamme allattàr di tigre ircana.
      Che dissimulo io piú? l'uomo spietato
      pur un segno non diè di mente umana.
      Forse cambiò color? forse al mio duolo
      bagnò almen gli occhi o sparse un sospir solo?

58      Quali cose tralascio o quai ridico?
      S'offre per mio, mi fugge e m'abbandona;
      quasi buon vincitor, di reo nemico
      oblia le offese, i falli aspri perdona.
      Odi come consiglia! odi il pudico
      Senocrate d'amor come ragiona!
      O Cielo, o dèi, perché soffrir questi empi
      fulminar poi le torri e i vostri tèmpi?

59      Vattene pur, crudel, con quella pace
      che lasci a me; vattene, iniquo, omai.
      Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
      indivisibilmente a tergo avrai.
      Nova furia, co' serpi e con la face
      tanto t'agiterò quanto t'amai.
      E s'è destin ch'esca del mar, che schivi
      gli scogli e l'onde e che a la pugna arrivi,

60      là tra 'l sangue e le morti egro giacente
      mi pagherai le pene, empio guerriero.
      Per nome Armida chiamerai sovente
      ne gli ultimi singulti: udir ciò spero."
      Or qui mancò lo spirto a la dolente,
      né quest'ultimo suono espresse intero;
      e cadde tramortita e si diffuse
      di gelato sudore, e i lumi chiuse.

61      Chiudesti i lumi, Armida; il Cielo avaro
      invidiò il conforto ai tuoi martiri.
      Apri, misera, gli occhi; il pianto amaro
      ne gli occhi al tuo nemico or ché non miri?
      Oh s'udir tu 'l potessi, oh come caro
      t'addolcirebbe il suon de' suoi sospiri!
      Dà quanto ei pote, e prende (e tu no 'l credi!)
      pietoso in vista gli ultimi congedi.

62      Or che farà? dée su l'ignuda arena
      costei lasciar cosí tra viva e morta?
      Cortesia lo ritien, pietà l'affrena,
      dura necessità seco ne 'l porta.
      Parte, e di lievi zefiri è ripiena
      la chioma di colei che gli fa scorta.
      Vola per l'alto mar l'aurata vela:
      ei guarda il lido, e 'l lido ecco si cela.

63      Poi ch'ella in sé tornò, deserto e muto
      quanto mirar poté d'intorno scorse.
      "Ito se n'è pur," disse "ed ha potuto
      me qui lasciar de la mia vita in forse?
      Né un momento indugiò, né un breve aiuto
      nel caso estremo il traditor mi porse?
      Ed io pur ancor l'amo, e in questo lido
      invendicata ancor piango e m'assido?

64      Che fa piú meco il pianto? altr'arme, altr'arte
      io non ho dunque? Ahi! seguirò pur l'empio,
      né l'abisso per lui riposta parte,
      né il ciel sarà per lui securo tempio.
      Già 'l giungo, e 'l prendo, e 'l cor gli svello, e sparte
      le membra appendo, a i dispietati essempio.
      Mastro è di ferità? vuo' superarlo
      ne l'arti sue... Ma dove son? che parlo?

65      Misera Armida, allor dovevi, e degno
      ben era, in quel crudele incrudelire
      che tu prigion l'avesti; or tardo sdegno
      t'infiamma, e movi neghittosa a l'ire.
      Pur se beltà può nulla o scaltro ingegno,
      non fia vòto d'effetto il mio desire.
      O mia sprezzata forma, a te s'aspetta
      (ché tua l'ingiuria fu) l'alta vendetta.

66      Questa bellezza mia sarà mercede
      del troncator de l'essecrabil testa.
      O miei famosi amanti, ecco si chiede
      difficil sí da voi ma impresa onesta.
      Io che sarò d'ampie ricchezze erede,
      d'una vendetta in guiderdon son presta.
      S'esser compra a tal prezzo indegna sono,
      beltà, sei di natura inutil dono.

67      Dono infelice, io ti rifiuto; e insieme
      odio l'esser reina e l'esser viva,
      e l'esser nata mai; sol fa la speme
      de la dolce vendetta ancor ch'io viva."
      Cosí in voci interrotte irata freme
      e torce il piè da la deserta riva,
      mostrando ben quanto ha furor raccolto,
      sparsa il crin, bieca gli occhi, accesa il volto.

68      Giunta a gli alberghi suoi chiamò trecento
      con lingua orrenda deità d'Averno.
      S'empie il ciel d'atre nubi, e in un momento
      impallidisce il gran pianeta eterno,
      e soffia e scote i gioghi alpestri il vento.
      Ecco già sotto i piè mugghiar l'inferno:
      quanto gira il palagio udresti irati
      sibili ed urli e fremiti e latrati.

69      Ombra piú che di notte, in cui di luce
      raggio misto non è, tutto il circonda,
      se non se in quanto un lampeggiar riluce
      per entro la caligine profonda.
      Cessa al fin l'ombra, e i raggi il sol riduce
      pallidi; né ben l'aura anco è gioconda,
      né piú il palagio appar, né pur le sue
      vestigia, né dir puossi: "Egli qui fue."

70      Come imagin talor d'immensa mole
      forman nubi ne l'aria e poco dura,
      ché 'l vento la disperde o solve il sole,
      come sogno se 'n va ch'egro figura,
      cosí sparver gli alberghi, e restàr sole
      l'alpe e l'orror che fece ivi natura.
      Ella su 'l carro suo, che presto aveva,
      s'assise, e come ha in uso al ciel si leva.

71      Calca le nubi e tratta l'aure a volo,
      cinta di nembi e turbini sonori,
      passa i lidi soggetti a l'altro polo
      e le terre d'ignoti abitatori;
      passa d'Alcide i termini, né 'l suolo
      appressa de gli Espèri o quel de' Mori,
      ma su i mari sospeso il corso tiene
      insin che a i lidi di Soria perviene.

72      Quinci a Damasco non s'invia, ma schiva
      il già sí caro de la patria aspetto,
      e drizza il carro a l'infecondo riva
      ove è tra l'onde il suo castello eretto.
      Qui giunta, i servi e le donzelle priva
      di sua presenza e sceglie ermo ricetto;
      e fra vari pensier dubbia s'aggira,
      ma tosto cede la vergogna a l'ira.

73      "Io n'andrò pur," dice ella "anzi che l'armi
      de l'Oriente il re d'Egitto mova.
      Ritentar ciascun'arte e trasmutarmi
      in ogni forma insolita mi giova,
      trattar l'arco e la spada, e serva farmi
      de' piú potenti e concitargli a prova:
      pur che le mie vendette io veggia in parte,
      il rispetto e l'onor stiasi in disparte.

74      Non accusi già me, biasmi se stesso
      il mio custode e zio che cosí volse.
      Ei l'alma baldanzosa e 'l fragil sesso
      a i non debiti uffici in prima volse;
      esso mi fé donna vagante, ed esso
      spronò l'ardire e la vergogna sciolse:
      tutto si rechi a lui ciò che d'indegno
      fei per amore o che farò per sdegno."

75      Cosí risolse, e cavalieri e donne,
      paggi e sergenti frettolosa aduna;
      e ne' superbi arnesi e ne le gonne
      l'arte dispiega e la regal fortuna,
      e in via si pone; e non è mai ch'assonne
      o che si posi al sole od a la luna,
      sin che non giunge ove le schiere amiche
      copria di Gaza le campagne apriche.



canto DICIASSETTESIMO


1       Gaza è città de la Giudea nel fine,
      su quella via ch'invèr Pelusio mena,
      posta in riva del mare, ed ha vicine
      immense solitudini d'arena,
      le quai, come Austro suol l'onde marine,
      mesce il turbo spirante, onde a gran pena
      ritrova il peregrin riparo o scampo
      ne le tempeste de l'instabil campo.

2       Del re d'Egitto è la città frontiera,
      da lui gran tempo inanzi a i Turchi tolta,
      e però ch'opportuna e prossima era
      a l'alta impresa ove la mente ha vòlta,
      lasciando Egitto e la sua regia altera
      qui traslato il gran seggio e qui raccolta
      già da varie provincie insieme avea
      l'innumerabil oste a l'assemblea.

3       Musa, quale stagione e qual là fosse
      stato di cose or tu mi reca a mente:
      qual arme il grande imperator, quai posse,
      qual serva avesse e qual compagna gente,
      quando del Mezzogiorno in guerra mosse
      le forze e i regi e l'ultimo Oriente;
      tu sol le schiere e i duci e sotto l'arme
      mezzo il mondo raccolto, or puoi dettarme.

4       Poscia che ribellante al greco impero
      si sottrasse l'Egitto e mutò fede,
      del sangue di Macon nato un guerriero
      se 'n fe' tiranno e vi fondò la sede.
      Ei fu detto Califfo, e del primiero
      chi n'ha lo scettro al nome anco succede.
      Cosí per ordin lungo il Nilo i suoi
      Faraon vide e i Tolomei dopoi.

5       Volgendo gli anni, il regno è stabilito
      ed accresciuto in guisa tal che viene,
      Asia e Libia ingombrando, al sirio lito
      da' marmarici fini e da Cirene,
      e passa a dentro incontra a l'infinito
      corso del Nilo assai sovra Siene,
      e quinci a le campagne inabitate
      va de la sabbia e quindi al grande Eufrate.

6       A destra ed a sinistra in sé comprende
      l'odorata maremma e 'l ricco mare,
      e fuor de l'Eritreo molto si stende
      incontra al sol che matutino appare.
      L'imperio ha in sé gran forze, e piú le rende
      il re ch'or lo governa illustri e chiare,
      ch'è per sangue signor, ma piú per merto,
      ne l'arti regie e militari esperto.

7       Questi or co' Turchi, or con le genti perse
      piú guerre fe': le mosse e le respinse;
      fu perdente e vincente, e ne le averse
      fortune fu maggior che quando vinse.
      Poi che la grave età piú non sofferse
      de l'armi il peso, alfin la spada scinse;
      ma non depose il suo guerriero ingegno,
      e d'onor il desio vasto e di regno.

8       Ancor guerreggia per ministri, ed have
      tanto vigor di mente e di parole,
      che de la monarchia la soma grave
      non sembra a gli anni suoi soverchia mole.
      Sparsa in minuti regni Africa pave
      tutta al suo nome e 'l remoto Indo il cole,
      e gli porge altri volontario aiuto
      d'armate genti ed altri d'or tributo.

9       Tanto e sí fatto re l'arme raguna,
      anzi pur adunate omai l'affretta
      contra il sorgente imperio e la fortuna
      franca, ne le vittorie omai sospetta.
      Armida ultima vien: giunge opportuna
      ne l'ora a punto a la rassegna eletta.
      Fuor de le mura in spazioso campo
      passa dinanzi a lui schierato il campo.

10      Egli in sublime soglio, a cui per cento
      gradi eburnei s'ascende, altero siede;
      e sotto l'ombra d'un gran ciel d'argento
      porpora intesta d'or preme co 'l piede,
      e ricco di barbarico ornamento
      in abito regal splender si vede:
      fan torti in mille fascie i bianchi lini
      alto diadema in nova forma a i crini.

11      Lo scettro ha ne la destra e per canuta
      barba appar venerabile e severo;
      e da gli occhi, ch'etade ancor non muta,
      spira l'ardire e 'l suo vigor primiero,
      e ben da ciascun atto è sostenuta
      la maestà de gli anni e de l'impero.
      Apelle forse o Fidia in tal sembiante
      Giove formò, ma Giove allor tonante.

12      Stannogli, a destra l'un, l'altro a sinistra,
      due satrapi, i maggiori: alza il piú degno
      la nuda spada, del rigor ministra,
      l'altro il sigillo ha del suo ufficio in segno.
      Custode un de' secreti, al re ministra
      opra civil ne' grandi affar del regno,
      ma prence de gli esserciti e con piena
      possanza è l'altro ordinator di pena.

13      Sotto, folta corona al seggio fanno
      con fedel guardia i suoi Circassi astati,
      ed oltre l'aste hanno corazze ed hanno
      spade lunghe e ricurve a l'un de' lati.
      Cosí sedea, cosí scopria il tiranno
      d'eccelsa parte i popoli adunati;
      tutte a' suoi piè nel trapassar le schiere
      chinan, quasi adorando, armi e bandiere.

14      Il popol de l'Egitto in ordin primo
      fa di sé mostra, e quattro i duci sono:
      duo de l'alto paese e duo de l'imo,
      ch'è del celeste Nilo opera e dono.
      Al mare usurpò il letto il fertil limo,
      e rassodato al cultivar fu buono;
      sí crebbe Egitto: oh quanto a dentro è posto
      quel che fu lido a i naviganti esposto!

15      Nel primiero squadron appar la gente
      ch'abitò d'Alessandria il ricco piano,
      ch'abitò il lido vòlto a l'occidente
      ch'esser comincia omai lido africano.
      Araspe è il duce lor, duce potente
      d'ingegno piú che di vigor di mano:
      ei di furtivi aguati è mastro egregio,
      e d'ogn'arte moresca in guerra ha il pregio.

16      Secondan quei che posti invèr l'aurora
      ne la costa asiatica albergaro,
      e li guida Arontèo cui nulla onora
      pregio o virtú, ma i titoli il fan chiaro.
      Non sudò il molle sotto l'elmo ancora,
      né matutine trombe anco il destaro,
      ma da gli agi e da l'ombra a dura vita
      intempestiva ambizion l'invita.

17      Quella che terza è poi, squadra non pare
      ma un'oste immensa, e campi e lidi tiene;
      non crederai ch'Egitto mieta ed are
      per tanti, e pur da una città sua viene:
      città, ch'a le provincie emula e pare,
      mille cittadinanze in sé contiene.
      Del Cairo i' parlo; indi il gran vulgo adduce,
      vulgo a l'arme restio, Campsone il duce.

18      Vengon sotto Gazèl quei che le biade
      segaron nel vicin campo fecondo,
      e piú suso insin là dove ricade
      il fiume al precipizio suo secondo.
      La turba egizia avea sol archi e spade,
      né sosterria d'elmo o corazza il pondo:
      d'abito è ricca, onde altrui vien che porte
      desio di preda e non timor di morte.

19      Poi la plebe di Barca, e nuda, e inerme
      quasi, sotto Alarcon passar si vede,
      che la vita famelica ne l'erme
      piaggie gran tempo sostentò di prede.
      Con istuol manco reo ma inetto a ferme
      battaglie, di Zumara il re succede;
      quel di Tripoli poscia: e l'uno e l'altro
      nel pugnar volteggiando è dotto e scaltro.

20      Diretro ad essi apparvero i cultori
      de l'Arabia Petrea, de la Felice,
      che 'l soverchio del gelo e de gli ardori
      non sente mai, se 'l ver la fama dice;
      ove nascon gl'incensi e gli altri odori,
      ove rinasce l'immortal fenice,
      ch'in quella ricca fabrica ch'aduna
      a l'essequie, a i natali, ha tomba e cuna.

21      L'abito di costoro è meno adorno,
      ma l'armi a quei d'Egitto han simiglianti.
      Ecco altri Arabi poi, che di soggiorno
      certo non sono stabili abitanti:
      peregrini perpetui usano intorno
      trarne gli alberghi e le cittadi erranti.
      Han questi voce e femminil statura,
      crin lungo e negro, e negra faccia e scura.

22      E gran canne indiane arman di corte
      punte di ferro, e 'n su destrier correnti
      diresti ben che un turbine lor porte,
      se pur han turbo sí veloce i venti.
      Da Siface le prime erano scòrte,
      Aldino in guardia ha le seconde genti,
      le terze guida Albiazàr ch'è fiero
      omicida ladron, non cavaliero.

23      La turba è appresso che lasciate avea
      l'isole cinte da l'arabiche onde,
      da cui pescando già raccòr solea
      conche di perle gravide e feconde.
      Sono i Negri con lor su l'eritrea
      marina posti a le sinistre sponde.
      Quegli Agricalte e questi Osmida regge,
      che schernisce ogni fede ed ogni legge.

24      Gli Etiòpi di Mèroe indi seguiro:
      Mèroe, che quindi il Nilo isola face
      ed Astrabora quinci, il cui gran giro
      è di tre regni e di due fé capace.
      Li conducea Canario ed Assimiro,
      re l'uno e l'altro e di Macon seguace
      e tributario al Califé; ma tenne
      santa credenza il terzo e qui non venne.

25      Poi due regi soggetti anco venieno
      con squadre d'arco armate e di quadrella:
      un, soldano è d'Ormús, che dal gran seno
      persico è cinta, nobil terra e bella;
      l'altro, di Boecan; questa è nel seno
      del gran flusso marino isola anch'ella,
      ma quando poi scemando il mar s'abbassa,
      co 'l piede asciutto il peregrin vi passa.

26      Né te, Altamoro, entro al pudico letto
      potuto ha ritener la sposa amata.
      Pianse, percosse il biondo crine e 'l petto
      per distornar la tua fatale andata:
      "Dunque," dicea "crudel, piú che 'l mio aspetto,
      del mar l'orrida faccia a te fia grata?
      fia l'arme al braccio tuo piú caro peso
      che 'l picciol figlio a i dolci scherzi inteso?"

27      È questi re di Sarmacante; e 'l manco
      ch'in lui si pregi, è il libero diadema,
      cosí dotto è ne l'arme, e cosí franco
      ardir congiunge a gagliardia suprema.
      Saprallo ben (l'annunzio) il popol franco,
      ed è ragion che insino ad or ne tema.
      I suoi guerrieri indosso han la corazza,
      la spada al fianco ed a l'arcion la mazza.

28      Ecco poi fin da gl'Indi e da l'albergo
      de l'aurora venuto Adrasto il fero,
      che di serpenti indosso ha per usbergo
      il cuoio verde e maculato a nero,
      e smisurato a un elefante il tergo
      preme cosí come si suol destriero.
      Gente guida costui di qua dal Gange
      che si lava nel mar che l'Indo frange.

29      Ne la squadra che segue è scelto il fiore
      de la regal milizia, e v'ha que' tutti
      che con regal mercé, con degno onore,
      e per guerra e per pace eran condutti,
      ch'armati a securezza ed a terrore
      vengono in su i destrier possenti instrutti;
      e de' purpurei manti e de la luce
      de l'acciaio e de l'oro il ciel riluce.

30      Fra questi è il crudo Alarco ed Odemaro
      ordinator di squadre ed Idraorte,
      e Rimedon che per l'audacia è chiaro,
      sprezzator de' mortali e de la morte;
      e Tigrane e Rapoldo il gran corsaro,
      già de' mari tiranno; e Ormondo il forte,
      e Marlabusto arabico a chi il nome
      l'Arabie dièr che ribellanti ha dome.

31      Evvi Orindo, Arimon, Pirga, Brimarte
      espugnator de le città, Sifante
      domator de' cavalli; e tu de l'arte
      de la lotta maestro, Aridamante;
      e Tisaferno, il folgore di Marte,
      a cui non è chi d'agguagliar si vante
      o se in arcione o se pedon contrasta,
      o se rota la spada o corre l'asta.

32      Ma duce è un prence armeno il qual tragitto
      al paganesmo ne l'età novella
      fe' da la vera fede, ed ove ditto
      fu già Clemente, ora Emiren s'appella;
      per altro, uom fido e caro al re d'Egitto
      sovra quanti per lui calcàr mai sella:
      è duce insieme e cavalier soprano
      per cor, per senno e per valor di mano.

33      Nessun piú rimanea, quando improvisa
      Armida apparve e dimostrò sua schiera.
      Venia sublime in un gran carro assisa,
      succinta in gonna e faretrata arciera;
      e mescolato il novo sdegno in guisa
      co 'l natio dolce in quel bel volto s'era,
      che vigor dàlle, e cruda ed acerbetta
      par che minacci e minacciando alletta.

34      Somiglia il carro a quel che porta il giorno,
      lucido di piropi e di giacinti;
      e frena il dotto auriga al giogo adorno
      quattro unicorni a coppia a coppia avinti.
      Cento donzelle e cento paggi intorno
      pur di faretra gli omeri van cinti,
      ed a i bianchi destrier premono il dorso
      che sono al giro pronti e lievi al corso.

35      Segue il suo stuolo, ed Aradin con quello
      ch'Idraote assoldò ne la Soria.
      Come allor che 'l rinato unico augello
      i suo' Etiòpi a visitar s'invia
      vario e vago la piuma, e ricco e bello
      di monil, di corona aurea natia,
      stupisce il mondo e va dietro ed a i lati,
      meravigliando, essercito d'alati,

36      cosí passa costei, meravigliosa
      d'abito, di maniere e di sembiante.
      Non è allor sí inumana o sí ritrosa
      alma d'amor che non divegna amante.
      Veduta a pena e in gravità sdegnosa,
      invaghir può genti sí varie e tante;
      che sarà poi, quando in piú lieto viso
      co' begli occhi lusinghi e co 'l bel riso?

37      Ma poi ch'ella è passata, il re de' regi
      comanda ch'Emireno a sé ne vegna,
      ché lui preporre a tutti i duci egregi
      e duce farlo universal disegna.
      Quel, già presago, a i meritati pregi
      con fronte vien che ben del grado è degna:
      la guardia de' Circassi in due si fende
      e gli fa strada al seggio, ed ei v'ascende;

38      e chino il capo e le ginocchia, al petto
      giunge la destra. Il re cosí gli dice:
      "Te' questo scettro; a te, Emiren, commetto
      le genti, e tu sostieni in lor mia vice,
      e porta, liberando il re soggetto,
      su' Franchi l'ira mia vendicatrice.
      Va', vedi e vinci; e non lasciar de' vinti
      avanzo, e mena presi i non estinti."

39      Cosí parlò il tiranno, e del soprano
      imperio il cavalier la verga prese:
      "Prendo scettro, signor, d'invitta mano,"
      disse "e vo co' tuo' auspici a l'alte imprese,
      e spero, in tua virtú tuo capitano,
      de l'Asia vendicar le gravi offese;
      né tornerò se vincitor non torno,
      e la perdita avrà morte, non scorno.

40      Ben prego il Ciel che, s'ordinato male
      (ch'io già no 'l credo) di là su minaccia,
      tutta su 'l capo mio quella fatale
      tempesta accolta di sfogar gli piaccia;
      e salvo rieda il campo, e 'n trionfale
      piú che in funebre pompa il duce giaccia."
      Tacque, e seguí co' popolari accenti
      misto un gran suon de' barbari instrumenti.

41      E fra le grida ei suoni in mezzo a densa
      nobile turba il re de' re si parte;
      e giunto a la gran tenda, a lieta mensa
      raccoglie i duci e siede egli in disparte,
      ond'or cibo, or parole altrui dispensa,
      né lascia inonorata alcuna parte.
      Armida a l'arte sue ben trova loco
      quivi opportun fra l'allegrezza e 'l gioco.

42      Ma già tolte le mense, ella che vede
      tutte le viste in sé fisse ed intente,
      e ch'a' segni ben noti omai s'avvede
      che sparso è il suo venen per ogni mente,
      sorge e si volge al re da la sua sede
      con atto insieme altero e riverente,
      e quanto può magnanima e feroce
      cerca parer nel volto e ne la voce.

43      "O re supremo," dice "anch'io ne vegno
      per la fé, per la patria ad impiegarmi.
      Donna son io, ma regal donna: indegno
      già di reina il guerreggiar non parmi.
      Usi ogn'arte regal chi vuol il regno,
      dansi a l'istessa man lo scettro e l'armi;
      saprà la mia (né torpe al ferro o langue)
      ferir e trar da le ferite il sangue.

44      Né creder che sia questo il dí primiero
      ch'a ciò nobil m'invoglia alta vaghezza,
      ché in pro di nostra legge e del tuo impero
      son io già prima a militar avezza.
      Ben rammentar déi tu s'io dico il vero,
      ché d'alcun'opra nostra hai pur contezza,
      e sai che molti de' maggior campioni
      che dispieghin la Croce io fèi prigioni.

45      Da me presi ed avinti, e da me furo
      in magnifico dono a te mandati;
      ed ancor si stariano in fondo oscuro
      di perpetua prigion per te guardati,
      e saresti ora tu via piú securo
      di terminar vincendo i tuoi gran piati,
      se non che 'l fier Rinaldo, il qual uccise
      i miei guerrieri, in libertà li mise.

46      Chi sia Rinaldo è noto; e qui di lui
      lunga istoria di cose anco si conta:
      questo è il crudel ond'aspramente fui
      offesa poi, né vendicata ho l'onta;
      onde sdegno a ragione aggiunge i sui
      stimoli, e piú mi rende a l'arme pronta.
      Ma qual sia la mia ingiuria, a lungo detta
      saravvi; or tanto basti: io vuo' vendetta.

47      E la procurerò, che non invano
      soglion portarne ogni saetta i venti,
      e la destra del Ciel di giusta mano
      drizza l'arme talor contra i nocenti;
      ma s'alcun fia ch'al barbaro inumano
      tronchi il capo odioso e me 'l presenti,
      a grado avrò questa vendetta ancora,
      benché fatta da me piú nobil fòra,

48      a grado sí che gli sarà concessa
      quella ch'io posso dar maggior mercede:
      me d'un tesor dotata e di me stessa
      in moglie avrà, s'in guiderdon mi chiede.
      Cosí ne faccio qui stabil promessa,
      cosí ne giuro inviolabil fede.
      Or s'alcun è che stimi i premi nostri
      degni del rischio, parli e si dimostri."

49      Mentre la donna in guisa tal favella,
      Adrasto affigge in lei cupidi gli occhi:
      "Tolga il Ciel" dice poi "che le quadrella
      nel barbaro omicida unqua tu scocchi,
      ché non è degno un cor villano, o bella
      saettatrice, che tuo colpo il tocchi.
      Atto de l'ira tua ministro sono,
      ed io del capo suo ti farò dono.

50      Io sterparogli il core, io darò in pasto
      le membra lacerate a gli avoltoi."
      Cosí parlava l'indiano Adrasto,
      né soffrí Tisaferno i vanti suoi:
      "E chi sei," disse "tu, che sí gran fasto
      mostri, presente il re, presenti noi?
      Forse è qui tal ch'ogni tuo vanto audace
      supererà co' fatti, e pur si tace."

51      Rispose l'indo fero: "Io mi son uno
      ch'appo l'opre il parlare ho scarso e scemo.
      Ma s'altrove che qui cosí importuno
      parlavi, tu parlavi il detto estremo."
      Seguito avrian, ma raffrenò ciascuno
      dimostrando la destra il re supremo.
      Disse ad Armida poi: "Donna gentile,
      ben hai tu cor magnanimo e virile;

52      e ben sei degna a cui suoi sdegni ed ire
      l'uno e l'altro di lor conceda e done,
      perché tu poscia a voglia tua le gire
      contra quel forte predator fellone.
      Là fian meglio impiegate, e 'l vostro ardire
      là può chiaro mostrarsi in paragone."
      Tacque, ciò detto; e quegli offerta nova
      fecero a lei di vendicarla a prova.

53      Né quelli pur, ma qual piú in guerra è chiaro
      la lingua al vanto ha baldanzosa e presta.
      S'offerser tutti a lei, tutti giuraro
      vendetta far su l'essecrabil testa,
      tante contra il guerrier ch'ebbe sí caro
      armi or costei commove e sdegni desta.
      Ma esso, poi ch'abbandonò la riva,
      felicemente al gran corso veniva.

54      Per le medesme vie ch'in prima corse,
      la navicella indietro si raggira;
      e l'aura, ch'a le vele il volo porse,
      non men seconda al ritornar vi spira.
      Il giovenetto or guarda il polo e l'Orse
      ed or le stelle rilucenti mira,
      via de l'opaca notte, or fiumi e monti
      che sporgono su 'l mar l'alpestre fronti;

55      or lo stato del campo, or il costume
      di varie genti investigando intende.
      E tanto van per le salate spume,
      che lor da l'orto il quarto sol risplende;
      e quando omai n'è disparito il lume,
      la nave terra finalmente prende.
      Disse la donna allor. "Le palestine
      piaggie son qui: qui del viaggio è il fine."

56      Quinci i tre cavalier su 'l lito spose,
      e sparve in men che non si forma un detto.
      Sorgea la notte intanto, e de le cose
      confondea i vari aspetti un solo aspetto.
      E in quelle solitudini arenose
      essi veder non ponno o muro o tetto,
      né d'uomo o di destriero appaion l'orme
      o d'altro pur che del camin gli informe.

57      Poi che stati sospesi alquanto foro,
      mossero i passi e dièr le spalle al mare.
      Ed ecco di lontano a gli occhi loro
      un non so che di luminoso appare,
      che con raggi d'argento e lampi d'oro
      la notte illustra e fa l'ombre piú rare.
      Essi ne vanno allor contra la luce,
      e già veggion che sia quel che sí luce.

58      Veggiono a un grosso tronco armi novelle
      incontra i raggi de la luna appese,
      e fiammeggiar, piú che nel ciel le stelle,
      gemme ne l'elmo aurato e ne l'arnese;
      e scoprono a quel lume imagin belle
      nel grande scudo in lungo ordine stese.
      Presso, quasi custode, un vecchio siede
      che contra lor se 'n va, come li vede.

59      Ben è da' due guerrier riconosciuto
      di saggio amico il venerabil volto.
      Ma, poi che ricevé lieto saluto
      e ch'ebbe lor cortesemente accolto,
      al giovenetto, il qual tacito e muto
      il riguardava, il ragionar rivolto:
      "Signor, te sol" gli disse "io qui soletto
      in cotal ora desiando aspetto,

60      ché, se no 'l sai, ti sono amico; e quanto
      curi le cose tue chiedilo a questi,
      ch'essi, scòrti da me, vinser l'incanto
      ove tua vita misera traesti.
      Or odi i detti miei, contrari al canto
      de le sirene, e non ti sian molesti,
      ma gli serba nel cor fin che distingua
      meglio a te il ver piú saggia e santa lingua.

61      Signor, non sotto l'ombra in piaggia molle
      tra fonti e fior, tra ninfe e tra sirene,
      ma in cima a l'erto e faticoso colle
      de la virtú riposto è il nostro bene.
      Chi non gela e non suda e non s'estolle
      da le vie del piacer, là non perviene.
      Or vorrai tu lungi da l'alte cime
      giacer, quasi tra valli augel sublime?

62      T'alzò natura inverso il ciel la fronte,
      e ti diè spirti generosi ed alti,
      perché in su miri e con illustri e conte
      opre te stesso al sommo pregio essalti;
      e ti diè l'ire ancor veloci e pronte,
      non perché l'usi ne' civili assalti
      né perché sian di desideri ingordi
      elle ministre, ed a ragion discordi,

63      ma perché il tuo valore, armato d'esse,
      piú fero assalga gli aversari esterni,
      e sian con maggior forza indi ripresse
      le cupidigie, empi nemici interni.
      Dunque ne l'uso per cui fur concesse
      l'impieghi il saggio duce e le governi,
      ed a suo senno or tepide or ardenti
      le faccia, ed or le affretti ed or le allenti."

64      Cosí parlava; e l'altro, attento e cheto
      a le parole sue d'alto consiglio,
      fea de' detti conserva, e mansueto
      volgeva a terra e vergognoso il ciglio.
      Ben vide il mago veglio il suo secreto,
      e gli soggiunse: "Alza la fronte, o figlio,
      e in questo scudo affissa gli occhi omai,
      ch'ivi de' tuoi maggior l'opre vedrai.

65      Vedrai de gli avi il divulgato onore,
      lunge precorso in loco erto e solingo;
      tu dietro anco riman', lento cursore,
      per questo de la gloria illustre arringo.
      Su su, te stesso incita: al tuo valore
      sia sferza e spron quel ch'io colà dipingo."
      Cosí diceva; e 'l cavalier affisse
      lo sguardo là, mentre colui sí disse.

66      Con sottil magistero in campo angusto
      forme infinite espresse il fabro dotto,
      del sangue d'Azio, glorioso, augusto
      l'ordin vi si vedea, nulla interrotto:
      vedeasi dal roman fonte vetusto
      i suoi rivi dedur puro e incorrotto.
      Stan coronati i principi d'alloro,
      mostra il vecchio le guerre e i pregi loro.

67      Mostragli Caio, allor ch'a strane genti
      va prima in preda il già inclinato impero,
      prendere il fren de' popoli volenti
      e farsi d'Esti il principe primiero,
      ed a lui ricovrarsi i men potenti
      vicini a cui rettor facea mestiero.
      Poscia, quando ripassa il varco noto,
      a gli inviti d'Onorio, il fero goto,

68      e quando sembra che piú avampi e ferva
      di barbarico incendio Italia tutta,
      e quando Roma, prigioniera e serva,
      sin dal profondo teme esser destrutta,
      mostra ch'Aurelio in libertà conserva
      la gente sotto al suo scettro ridutta.
      Mostragli poi Foresto che s'oppone
      a l'unno regnator de l'Aquilone.

69      Ben si conosce al volto Attila il fello,
      ché con occhi di drago ei par che guati,
      ed ha faccia di cane, ed a vedello
      dirai che ringhi e udir credi i latrati;
      poi vinto il fero in singolar duello
      mirasi rifuggir fra gli altri armati,
      e la difesa d'Aquilea poi tòrre
      il buon Foresto, de l'Italia Ettorre.

70      Altrove è la sua morte, e 'l suo destino
      è destin de la patria. Ecco l'erede
      del padre grande il gran figlio Acarino,
      ch'a l'italico onor campion succede.
      Cedeva a i fati, e non a gli Unni, Altino,
      poi riparava in piú secura sede;
      poi raccoglieva una città di mille
      in val di Po case disperse in ville.

71      Contra il gran fiume ch'in diluvio ondeggia
      muniasi, e quindi la città sorgea
      che ne' futuri secoli la reggia
      de' magnanimi Estensi esser dovea.
      Par che rompa gli Alani e che si veggia
      contra Odoacro aver fortuna rea,
      e morir per l'Italia: oh nobil morte,
      che de l'onor paterno il fa consorte!

72      Cader seco Alforisio, ire in essiglio
      Azzo si vede e 'l suo fratel con esso,
      e ritornar con l'arme e co 'l consiglio,
      dapoi che fu il tiranno erulo oppresso.
      Trafitto di saetta il destro ciglio,
      segue l'estense Epaminonda oppresso;
      e par lieto morir, poscia che 'l crudo
      Totila è vinto e salvo il caro scudo.

73      Di Bonifacio parlo; e fanciulletto
      premea Valerian l'orme del padre:
      già di destra viril, viril di petto,
      cento no 'l sostenean gotiche squadre.
      Non lunge, ferocissimo in aspetto,
      fea contra Schiavi Ernesto opre leggiadre;
      ma inanzi a lui l'intrepido Aldoardo
      da Monscelce escludeva il re lombardo.

74      Enrico v'era e Berengario; e dove
      spiega il gran Carlo la sua augusta insegna
      par ch'egli il primo feritor si trove,
      ministro o capitan d'impresa degna.
      Poi segue Lodovico, e quegli il move
      contra il nipote ch'in Italia regna:
      ecco in battaglia il vince e 'l fa prigione;
      eravi poi co' cinque figli Ottone.

75      V'era Almerico; e si vedea già fatto
      de la città, donna del Po, marchese.
      Devotamente il ciel riguarda, in atto
      di contemplante, il fondator di chiese.
      D'incontra Azzo secondo avean ritratto
      far contra Berengario aspre contese;
      e dopo un corso di fortuna alterno
      vinceva, e de l'Italia avea il governo.

76      Vedi Alberto il figliuolo ir fra' Germani
      e colà far le sue virtú sí note,
      che, vinti in giostra e vinti in guerra i Dani,
      genero il compra Otton con larga dote.
      Vedigli a tergo Ugon, quel ch'a' Romani
      fiaccar le corna impetuoso pote,
      e che marchese de l'Italia fia
      detto e Toscana tutta avrà in balia.

77      Poscia Tedaldo, e Bonifacio a canto
      di Beatrice sua poi v'era espresso.
      Non si vedea virile erede a tanto
      retaggio a sí gran padre esser successo.
      Seguia Matelda, ed adempia ben quanto
      difetto par nel numero e nel sesso,
      che può la saggia e valorosa donna
      sovra corone e scettri alzar la gonna.

78      Spira spiriti maschi in nobil volto,
      mostra vigor piú che viril lo sguardo:
      là configea i Normanni, e 'n fuga vòlto
      si dileguava il già invitto Guiscardo;
      qui rompea Enrico il quarto, ed a lui tolto
      offriva al tempio imperial stendardo;
      qui riponea il pontefice soprano
      nel gran soglio di Pietro in Vaticano.

79      Poi vedi, in guisa d'uom ch'onori ed ami,
      ch'or l'è al fianco Azzo il quinto, or la seconda.
      Ma d'Azzo il quarto in piú felici rami
      germogliava la prole alma e feconda.
      Va dove par che la Germania il chiami
      Guelfo il figliuol, figliuol di Cunigonda;
      e 'l buon germe roman con destro fato
      è ne' campi bavarici traslato.

80      Là d'un gran ramo estense ei par ch'inesti
      l'arbore di Guelfon, ch'è per sé vieto;
      quel ne' suoi Guelfi rinovar vedresti
      scettri e corone d'or, piú che mai lieto,
      e co 'l favor de' bei lumi celesti
      andar poggiando, e non aver divieto:
      già confina co 'l ciel, già mezza ingombra
      la gran Germania, e tutta anco l'adombra.

81      Ma ne' suoi rami italici fioriva
      bella non men la regal pianta a prova.
      Bertoldo qui d'incontra a Guelfo usciva,
      qui Azzo il sesto i suoi prischi rinova.
      Questa è la serie de gli eroi che viva
      nel metallo spirante par si mova.
      Rinaldo sveglia, in rimirando, mille
      spirti d'onor da le natie faville,

82      e d'emula virtú l'animo altero
      commosso avampa, ed è rapito in guisa
      che ciò che imaginando ha nel pensiero,
      città abbattuta e presa e gente uccisa,
      pur, come sia presente e come vero,
      dinanti agli occhi suoi vedere avisa;
      e s'arma frettoloso, e con la spene
      già la vittoria usurpa e la previene.

83      Ma Carlo, il quale a lui del regio erede
      di Dania già narrata avea la morte,
      la destinata spada allor gli diede:
      "Prendila," disse "e sia con lieta sorte,
      e solo in pro de la cristiana fede
      l'adopra, giusto e pio non men che forte;
      e fa del primo suo signor vendetta
      che t'amò tanto, e ben a te s'aspetta."

84      Rispose egli al guerriero: "A i cieli piaccia
      che la man che la spada ora riceve,
      con lei del suo signor vendetta faccia:
      paghi con lei ciò che per lei si deve."
      Carlo, rivolto a lui con lieta faccia,
      lunghe grazie ristrinse in sermon breve.
      Ma lor s'offriva il mago, ed al viaggio
      notturno l'affrettava il nobil saggio.

85      "Tempo è" dicea "di girne ove t'attende
      Goffredo e 'l campo, e ben giungi opportuno.
      Or n'andiam pur, ch'a le cristiane tende
      scorger ben vi saprò per l'aer bruno."
      Cosí dice egli, e poi su 'l carro ascende
      e lor v'accoglie senza indugio alcuno;
      e rallentando a' suoi destrieri il morso
      gli sferza, e drizza a l'oriente il corso.

86      Taciti se ne gian per l'aria nera,
      quando al garzon si volge il veglio e dice:
      "Veduto hai tu de la tua stirpe altera
      i rami e la vetusta alta radice;
      e se ben ella da l'età primiera
      stata è fertil d'eroi madre e felice,
      non è né fia di partorir mai stanca,
      ché per vecchiezza in lei virtú non manca.

87      E come tratto ho fuor del fosco seno
      de l'età prisca i primi padri ignoti,
      cosí potessi ancor scoprire a pieno
      ne' secoli avenire i tuoi nepoti,
      e pria ch'essi apran gli occhi al bel sereno
      di questa luce, farli al mondo noti!
      ché de' futuri eroi già non vedresti
      l'ordin men lungo, o pur men chiari i gesti.

88      Ma l'arte mia per sé dentro al futuro
      non scorge il ver che troppo occulto giace,
      se non caliginoso e dubbio e scuro,
      quasi lunge, per nebbia, incerta face;
      e se cosa qual certo io m'assecuro
      affermarti, non sono in questo audace,
      ch'io l'intesi da tal che senza velo
      i secreti talor scopre del Cielo.

89      Quel ch'a lui rivelò luce divina
      e ch'egli a me scoperse, io a te predico:
      "Non fu mai greca o barbara o latina
      progenie, in questo o nel buon tempo antico,
      ricca di tanti eroi quanti destina
      a te chiari nepoti il Cielo amico,
      ch'agguaglieran qual piú chiaro si noma
      di Sparta, di Cartagine e di Roma.

90      Ma fra gli altri" mi disse "Alfonso io sceglio
      primo in virtú ma in titolo secondo
      che nascer dée quando, corrotto e veglio,
      povero fia d'uomini illustri il mondo;
      questo fia tal che non sarà chi meglio
      la spada usi o lo scettro, o meglio il pondo
      o de l'arme sostegna o del diadema,
      gloria del sangue tuo, gemma suprema.

91      Darà, fanciullo, in varie imagin fere
      di guerra, i segni di valor sublime:
      fia terror de le selve e de le fère,
      e ne gli arringhi avrà le lodi prime;
      poscia riporterà da pugne vere
      palme vittoriose e spoglie opime,
      e sovente averrà che 'l crin si cigna
      or di lauro, or di quercia, or di gramigna.

92      De la matura età pregi men degni
      non fiano stabilir pace e quiete,
      mantener sue città fra l'arme e i regni
      di possenti vicin tranquille e chete,
      nutrire e fecondar l'arti e gl'ingegni,
      celebrar giochi illustri e pompe liete,
      librar con giusta lance e pene e premi,
      mirar da lunge e preveder gli estremi.

93      Oh s'avenisse mai che contra gli empi
      che tutte infesteran le terre e i mari,
      e de la pace in quei miseri tempi
      daran le leggi a i popoli piú chiari,
      duce se 'n gisse a vendicare i tèmpi
      da lor distrutti e i violati altari,
      qual ei giusta faria grave vendetta
      su 'l gran tiranno e su l'iniqua setta!

94      Indarno a lui con mille schiere armate
      quinci il Turco opporriasi e quindi il Mauro,
      ch'egli portar potrebbe oltre l'Eufrate,
      ed oltre i gioghi del nevoso Tauro
      ed oltre i regni ov'è perpetua state,
      la Croce e 'l bianco augello e i gigli d'auro,
      e per battesmo de le nere fronti
      del gran Nilo scoprir le ignote fonti."

95      Cosí parlava il veglio, e le parole
      lietamente accoglieva il giovenetto,
      che del pensier de la futura prole
      un tacito piacer sentia nel petto.
      L'alba intanto sorgea nunzia del sole,
      e 'l ciel cangiava in oriente aspetto,
      e su le tende già potean vedere
      da lunge il tremolar de le bandiere.

96      Ricominciò di novo allora il saggio:
      "Vedete il sol che vi riluce in fronte,
      e vi discopre con l'amico raggio
      le tende e 'l piano e la cittade e 'l monte.
      Securi d'ogni intoppo e d'ogni oltraggio
      io scòrti v'ho fin qui per vie non conte;
      potete senza guida ir per voi stessi
      omai; né lece a me che piú m'appressi."

97      Cosí tolse congedo, e fe' ritorno
      lasciando i cavalier ivi pedoni;
      ed essi pur contra il nascente giorno
      seguír lor strada e gír a i padiglioni.
      Portò la fama e divulgò d'intorno
      l'aspettato venir dei tre baroni,
      e inanzi ad essi al pio Goffredo corse
      che per raccòrli dal suo seggio sorse.